Elio Vittorini: “Vedi la mia Siracusa… e senti l’odore della nepita”
Ci sono figure che incroci sui libri di scuola e, vallo a spiegare perché, non incidono in maniera significativa – o almeno così ci sembra – sulla propria vita. Sono figure, personaggi, l’incontro con i quali – complice magari l’età (ma non vuol essere una giustificazione) – releghi subito nella categoria “studio-interrogazione-compiti” e come tali dotati, solitamente, di scarsissimo appeal.
A me, nella mia per nulla eccelsa carriera di studente (almeno dai tempi del ginnasio in poi), questo è capitato in più occasioni.
Ma poi succede anche che la vita ti proponga una seconda occasione di incontro con quelle figure, quei personaggi, in una stagione diversa – e più matura – della vita. E il discorso cambia. Ciò che avevi frettolosamente derubricato al rango di fastidiosa incombenza scolastica, alla quale ottemperare in un modo o nell’altro, diventa invece qualcosa a cui prestare attenzione. Scopri, insomma, che quelle figure, quei personaggi, le opere del loro ingegno, non ti sono del tutto indifferenti. Anzi.
È stato il caso di Elio Vittorini, del quale proprio oggi ricorre il 55/mo anniversario dalla morte avvenuta a Milano. A scuola Vittorini lo agganciammo soltanto di striscio e quasi per diritto di… cittadinanza: non so quanto ciò sia accaduto per (eventuale) volontà del prof. di lettere del tempo e quanto, invece (e probabilmente), per via di un programma che inevitabilmente finiva con il penalizzare larga parte degli autori del ‘900.
A quel primo fugace e per me assai poco significativo incontro con le pagine delle opere di Vittorini, a distanza di una decina di anni, ne seguì un altro. Ed è stato uno di quegli incontri che rimangono scolpiti nella memoria. Nel 1986, in occasione del ventennale della scomparsa dello scrittore siracusano – che sino a quel momento non è che la città avesse onorato con chissà quale impegno – ebbi modo di intervistare per le pagine di cronaca locale de “La Gazzetta di Siracusa” la professoressa Giovanna Cultrera, docente di lettere presso il “Quintiliano”, istituto che in quegli anni era soltanto ad indirizzo magistrale. Ma lei non era solo una docente: Giovanna Cultrera era stata compagna di classe di Jole, sorella di Elio, e amica della famiglia Vittorini. Ne venne fuori un ritratto nella dimensione siracusana più intimista e familiare di Elio Vittorini, piccoli pezzi di quotidianità che le erano rimasti impressi negli occhi e nella mente quelle volte in cui incrociava lo scrittore in uno dei suoi non frequenti rientri a Siracusa da Milano.
Grazie alla disponibilità della famiglia dell’editore Giuseppe Bozzanca, che ha portato avanti sinché ne ha avuto le forze la bella avventura della Gazzetta di Siracusa, ho avuto modo di rituffarmi tra le pagine di quel 12 febbraio 1986 e di rileggere quell’intervista nella quale Giovanna Cultrera raccontava di un Vittorini diverso da quell’uomo e quello scrittore troppe volte definito tout court inquieto e controverso. “Sono quattro le peculiarità della personalità di Elio Vittorini – affermava l’amica di famiglia – a cominciare dall’enorme entusiasmo che nutriva per la vita. La gioia, il gusto di vivere, l’amore per l’esistenza mi hanno sempre colpito in lui: questa era una parte della sua ricchezza, del suo fascino cui nessuno che lo avesse frequentato si sarebbe potuto sottrarre. Ricordo che vibrava per le cose più semplici: la sua era sempre un’autentica lezione di stile di vita. Ricordo che una volta, in uno dei rari momenti in cui faceva ritorno a Siracusa, ebbi l’opportunità di fare una breve gita in campagna assieme alla famiglia Vittorini. Il luogo era rupestre, brullo, ma tra le rocce faceva capolino la nepeta, un fiorellino spontaneo, molto semplice. Io non vi feci neppure caso ma ad un certo punto mi girai e vidi Elio che si era chinato per raccoglierlo. Lo annusò con tanta avidità e quindi esclamò: a nipitedda mia! Mi colpì enormemente questa sua capacità di vibrare per le cose più semplici”.
E quella Siracusa nella quale non sempre rientrava – quella città nella quale si chiedeva “Ma che avrei fatto a Siracusa? Perché ero venuto a Siracusa? Perché avevo preso il biglietto proprio per Siracusa e non per altrove? (“Conversazione in Sicilia”, cap. VIII) – doveva comunque essere qualcosa di più che un luogo di nascita. Sicuramente era un luogo che catturava il suo sguardo. Giovanna Cultrera raccontò che, dopo una visita a casa Vittorini, al momento di rincasare “non avendo un mio mezzo di trasporto Elio si offerse di accompagnarmi. Chiamò in breve una carrozzella e vi prendemmo posto io, sua moglie Ginetta ed Elio che appena si sedette prese subito a canticchiare, come fosse un bambino. Quindi si fermò, si rivolse alla moglie e le esclamò: “Vedi la mia Siracusa!”. Questa sua tenerezza, questi suoi slanci effettivi mi sorpresero e tuttora sono vivissimi in me”.
Quella inquietudine che molto spesso è stata l’etichetta più facilmente associata a Vittorini per Giovanna Cultrera era, piuttosto, altro. “L’ultimo tratto della sua personalità che vorrei evidenziare – concludeva quell’intervista data 12 febbraio 1986 – è poi la grande avidità di conoscere, di acquisire sempre nuovi elementi, che lo pervadeva per ogni dove: un’autentica tensione continua per la ricerca“. Ed una delle tante riprove di questa sete di sapere di Vittorini che andava ben oltre magari il… convenzionale è possibile riscontrarlo anche scorrendo con lo sguardo le pagine, ben custodite sotto una spessa teca in vetro, del registro dei volumi presi in prestito alla Biblioteca Alagoniana di Siracusa dove la firma di Elio Vittorini la si ritrova più volte in un breve arco temporale. Diversi i volumi presi in visione, da quelli di geografia alle opere fisico-mediche e trattati di fisionomia.
Ma, in cima a tutto per Vittorini c’era, per chiudere ancora con il ricordo che nel 1986 fece la professoressa Giovanna Cultrera, il suo sentirsi ed essere “libero da ogni vincolo. Non appena aveva il sospetto di poter essere politicamente strumentalizzato diveniva immediatamente propenso anche alle brusche rotture. Voleva essere libero, amava troppo la libertà, la sua e quella di ogni uomo”.