È noto che Lucia, appartenente a una nobile famiglia di Syracusæ, fu martire cristiana d’inizio IV secolo durante la feroce persecuzione voluta dall’imperatore romano Diocleziano.
Gli studiosi della vita di Lucia di Siracusa fanno costantemente riferimento ad antichi codici: il martyrion greco e la passio latina. Entrambe le due fonti descrivono il processo svolto dinanzi al romano prefetto (o consolare) Pascasio, per le accuse di disobbedienza alle leggi imperiali romane, mosse dal giovane pretendente di Lucia.
Al processo, che sostenne da sola dinanzi al prefetto Pascasio, Lucia rifiutò l’ordine di sacrificare agli dei pagani, attestando la sua fede irremovibile e la fierezza nel proclamarsi cristiana, citando i passi delle Scritture.
La giovane Lucia, per ordine di Pascasio, dopo varie torture fu uccisa il 13 dicembre del 304 con la spada per decapitazione. Secondo le fonti latine, le fu infisso un pugnale in gola (jugulatio).
Nella città di Siracusa, sottoposta ai Romani, tutto ai tempi della nostra Lucia sembra proprio essersi svolto senza alcuna garanzia di libertà e regolarità processuale: ogni atto fu meramente rimesso all’arbitrio dell’autorità giudicante, senza tra l’altro alcuna figura di difensore.
Ci si chiede come fosse possibile che il prefetto (o consolare) romano Pascasio avesse nella sottoposta città di Siracusa questo vasto imperium legale nel processare e nel giudicare, nell’imporre quindi limitazioni alla libertà, costrizioni e infine gravissime punizioni penali.
Come osservano gli studiosi del Diritto Romano, le concezioni dei processi e delle pene dei Romani variarono secondo le epoche ed ebbero notevoli evoluzioni. Nel lento procedere del tempo, diversi dovettero essere i poteri coercitivi dei magistrati romani, disciplinati infine da regolari procedure.
Pascasio, nel giudicare Lucia a Siracusa, avrebbe potuto applicare pene sicuramente meno gravi rispetto a quella mortale inflitta: ad esempio le castigationes della fustigazione o della flagellazione; la deportatio che produceva la perdita della dignitas (cioè della condizione sociale) e dei bona.
Al riguardo, secondo gli studiosi delle pene nel Diritto Romano, le sanzioni dei giudici erano spesso sproporzionate rispetto all’entità dei fatti. L’arbitrio dei giudicanti fu temperato da numerose prescrizioni date dagli imperatori, ma la poena capitis (extra ordinem) sopravvisse invece nella coercitio dei magistrati, e fu applicata in Roma contro gli schiavi; nelle province contro chiunque e fu attuata con la decapitazione (con gladius) e inflitta secondo l’arbitrio del giudicante.
Soltanto con la legislazione di Costantino (imperatore romano dal 306, successivamente al martirio di santa Lucia) numerose furono le disposizioni che limitarono l’arbitrio dei giudicanti, come quello di Pascasio.
Questo arbitrio del giudicante prefetto Pascasio ebbe però un seguito clamoroso. Come riferisce mons. Pasquale Magnano nel suo interessante libro “Lucia di Siracusa” del 2004, “secondo la passio latina, Pascasio pagò i suoi misfatti. Il Senato romano, infatti, lo chiamò a rendere ragione della sua amministrazione. Condotto in catene a Roma, Pascasio fu condannato a morte”.
Secondo la passio latina (punto 21), i Siciliani del tempo lo denunziarono, infatti, a Roma per la sua depraedatio della provincia.
(Autore ignoto – sec. XIV), Il martirio di S.Lucia.Provenienza: coll. F. Engelbert e F. Lippmann (Vienna). In primo piano è la scena del martirio; a sinistra in alto il tentativo di trasportare la santa in un postribolo e nel lontano sfondo quello di trascinarla con i buoi. A destra la comunione prima della morte. In alto a destra, la scena dell’esecuzione di Pascasio a Roma).