Per diverso tempo, soprattutto nei primi – e più formativi – anni del mio percorso che da circa quarant’anni si snoda nel mondo dell’informazione (con ruoli e compiti diversi ma tutti indissolubilmente legati da un unico filo, quello della notizia da cercare, verificare e proporre al pubblico dei lettori), mi sono occupato di cronaca nera e giudiziaria. E se, nel secondo caso, c’era un momento nel quale tutto poteva essere verificato e filtrato alla luce degli atti di indagine compiuti e dei processi che consentono di arrivare ad una verità – almeno alla verità giudiziaria, quella degli uomini –, nel caso invece della cronaca nera molto era affidato al fiuto, all’intuito personale, alla capacità di saper toccare i giusti tasti con gli interlocutori di turno. Insomma, un lavoro complesso, delicatissimo, con i piedi costantemente posati nelle sabbie mobili della confidenza interessata, della verità precostituita, dell’oscurità più fitta nell’immediatezza di vicende atroci.

Enzo Raffaele, il mio caposervizio in quegli anni alla Gazzetta del Sud – un vero amico che non esito a definire un maestro che mi ha fornito tutti i fondamentali della professione di cronista (lui a sua volta aveva raccontato per L’Ora parte delle più sanguinose e inquietanti vicende di mafia della Palermo di fine anni settanta-inizio anni ottanta) – mi “invitava” (è naturalmente soltanto un eufemismo) ad andare a vedere sempre con i miei occhi ciò di cui dovevo poi scrivere. Aveva un termine, in particolare, che mi è improvvisamente tornato in mente dopo aver letto il messaggio di Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali innervato dalla citazione Vangelica “Vieni e Vedi”: naschiare. Dovevo, cioè, andare sul posto, annusare l’aria (naschiare, allargare le narici per respirare utilizzando l’olfatto come fa un animale che “legge” l’ambiente circostante), vedere volti e luoghi, ascoltare i racconti e captare i frammenti di ciò che non si voleva si sapesse, cogliere gesti, movimenti, atteggiamenti. Tutto materiale indispensabile da utilizzare nel momento di scrivere poi il pezzo, utilissimo come elemento di concreto raffronto con le informazioni ufficiali (sempre poche e quando erano invece abbondanti era il chiaro segnale che le cose non stessero proprio in quel modo…) che venivano fornite.

L’invito a “venire e vedere” contenuto nel Messaggio del Santo Padre mi sembra che sia un imperativo categorico al quale non può sottrarsi alcuno – i giornalisti per primi – che, con onestà intellettuale e capacità di riconoscere i propri limiti, vuol cimentarsi nel racconto della realtà senza sostenere tesi precostituite e alzando lo sguardo in maniera tale da incrociare quello dell’altro. Il che non vuol dire “accontentarsi” di ciò che viene raccontato ma, piuttosto, di sottoporlo a esame critico utilizzando il setaccio delle proprie competenze professionali (altra cosa rispetto alle proprie convinzioni), porsi domande, individuare altri possibili punti di osservazione. Insomma, come denuncia Papa Francesco in questo suo Messaggio, porre un deciso argine al rischio di un appiattimento in “giornali fotocopia” o in notiziari tv e radio e siti web sostanzialmente uguali, dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, “di palazzo”, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società”.

Parole chiare e limpide che si sommano al grido di allarme dello stesso Pontefice sul pericolo di avere “un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni. Se non ci apriamo all’incontro, rimaniamo spettatori esterni, nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno la capacità di metterci davanti a una realtà aumentata nella quale ci sembra di essere immersi. Ogni strumento è utile e prezioso solo se ci spinge ad andare e vedere cose che altrimenti non sapremmo, se mette in rete conoscenze che altrimenti non circolerebbero, se permette incontri che altrimenti non avverrebbero”.

Nelle parole di Papa Francesco anche importanti riferimenti e utilissimi spunti di riflessione, su quello che è il modo “nuovo” di produrre informazione che si allontana dal metodo che era stato prevalente sino all’avvento dei social (i giornalisti a “produrre” informazione, il pubblico a “fruire” delle notizie) e che si è venuto affermando nel nome della disintermediazione per cui, oggi, tutti al tempo stesso possiamo essere co-autori delle notizie che condividiamo sul web e fruitori“Tutti siamo responsabili della comunicazione che facciamo, delle informazioni che diamo, del controllo che insieme possiamo esercitare sulle notizie false, smascherandole. Tutti siamo chiamati a essere testimoni della verità: ad andare, vedere e condividere”.

Andare, vedere, condividere. Tre azioni, tre concreti modi di “fare” indicati dal Santo Padre nei quali ritrovare, meglio che in qualsiasi ponderoso trattato, la radice stessa del lavoro di noi giornalisti. Lavoro, perché personalmente non arrivo a concepirlo come una missione: è un lavoro e come tale va fatto con dignità, scrupolo e con una giusta retribuzione). Un lavoro complicato, che richiede certamente passione (al pari di ogni altra nostra attività), che va onorato giorno dopo giorno, ora dopo ora, articolo dopo articolo. Ben sapendo che si può sbagliare ma un errore è tale perché è sempre riconoscibile e come tale rimediabile. Un lavoro affascinante al quale il Santo Padre con questo Suo Messaggio ha ridato nuova linfa. “Dobbiamo dire grazie al coraggio e all’impegno di tanti professionisti –  giornalisti, cineoperatori, montatori, registi che spesso lavorano correndo grandi rischi – se oggi conosciamo, ad esempio, la condizione difficile delle minoranze perseguitate in varie parti del mondo; se molti soprusi e ingiustizie contro i poveri e contro il creato sono stati denunciati; se tante guerre dimenticate sono state raccontate. Sarebbe una perdita non solo per l’informazione, ma per tutta la società e per la democrazia se queste voci venissero meno: un impoverimento per la nostra umanità”.

Ma grazie, probabilmente, siamo noi a doverlo dire

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