COVID-19: IL COLPETTO DELL’ANGELO
Il coronavirus ormai è passato alla storia. Se ne parlerà a lungo anche dopo la sua scomparsa (che speriamo avvenga in tempi brevi). Con amara ironia possiamo dire che si è già conquistata la ‘corona’. Ha ormai preso la forma di un eventum epocale. Dobbiamo riandare al 6 agosto del 1945 e all’11 settembre del 2001 per rintracciare un evento di tale significatività e pervasività. Secondo le parole sussurrate da colui che si trovò sganciare la prima bomba atomica su Hiroshima («Speriamo che così finisca questa guerra e ogni guerra»), da quel 6 agosto finirono le effettivamente le ‘grandi guerre’, ma da allora non è stato facile portare avanti la sfida lanciata da quel giorno a tutti gli umani, quella di vivere da umani. L’attentato alle Torri Gemelle ci ha ricordato chiaramente come non basti la caduta di un muro a Berlino (9 settembre 1989) per ritrovarci umani. Le ingiustizie sono infatti le mine vaganti di possibili futuri conflitti. Ed ecco che oggi, silenzioso e invisibile, entra in gioco il coronavirus. E secondo la sua natura diventa ‘virale’: entra dovunque. Le pazienti con le fobie da contagio vedono polverine pericolose in ogni luogo e si proteggono chiudendosi ritirandosi a casa. Adesso le loro fobie sono diventate la nostra realtà.
Ritorna l’angoscia della malattia e della morte. Un racconto ebraico narra di un angelo che dà un colpetto sulla fronte ad ogni bambino che nasce, per fargli dimenticare che morirà. Se così non fosse, nessuno potrebbe vivere. E il colpo dell’angelo funziona a tal punto, potremmo dire, da farci sentire quasi immortali, da farci vivere come se non fossimo tutti destinati alla morte. Soldi, potere, deliri, religione (non fede!) sembrano continuare oggi purtroppo, ma in ben altri termini, la missione dell’angelo. Come se ci dicessero: dimenticati che morirai! Chiudi la porta (o il porto) in modo da non far entrare il fratello che può distruggere l’illusione! L’illusione che tenersi stretto il proprio benessere equivalga al colpo dell’angelo…
Il coronavirus non ha la forza delle bombe, non ci sono sirene ad annunziarne l’arrivo, non ha la visibilità del nemico. Non usa fuoco e non provoca fame. Ma è l’ironia della commedia umana: la fobia dell’invisibilità, che caratterizza l’uomo di oggi, si amplia tragicamente col virus, diventa l’invisibilità che porta la morte. Siamo invitati – giustamente! – a vedere e a guardarci ovunque dall’invisibile virus. Così l’invisibilità ci cambia la vita. Chi ci salverà dal corona virus? Non è automaticamente letale come altre malattie, ma ha scatenato un’emergenza capace di far esplodere tutte le contraddizioni e le ingiustizie dei nostri assetti sociali, che mal compongono i diritti e le esigenze tra i forti e i deboli: dalle deficienze del sistema sanitario fino al cruciale nodo etico di dover sacrificare i più deboli se si arrivasse a dover scegliere chi ammettere e chi no alla terapia intensiva per penuria di posti. Il virus viene a ricordarci che siamo tutti, proprio tutti esposti al tocco della morte. Don Rodrigo è esposto alla peste come il più povero dei suoi servitori.
Ci viene imposto di non compiere gesti ormai diventati habitus relazionali: non toccare, non toccarsi. Quel toccare che è (stato) segno di vita e di vicinanza (‘datevi la mano’ esprime riconciliazione; ‘ti do la mano’ esprime vicinanza) diventa tabù. Non toccatevi! Il virus potrebbe insinuarsi nelle pieghe del vostro contatto. Non possiamo continuare a dire che le anime si incontrano nell’incontro di due mani. Ci viene impedito un gesto che rischiava di diventare rituale senza carne. Ma proprio questa limitazione può diventare l’occasione per riscoprire la centralità del guardarsi. ‘Tornino i volti!’ direbbe Levinas (così lo ‘traduceva’ il grande Italo Mancini). Torni lo sguardo ad essere il ‘tocco’ che salva, che crea incontro! E forse il tocco degli occhi possiede una intensità ed esige una distensione temporale che non conoscevamo o che avevamo forse dimenticato.
Ci viene imposto di restare a casa. Dopo essere fuggiti da casa (‘hai trasformano la casa in albergo’ una delle accuse più comuni e più ricattatorie in famiglia, rivolta soprattutto ai giovani) ci viene detto che per vivere è necessario restare a casa. Non più correre, ma dimorare. Scoprire il dilatarsi di questo verbo che permette ai nostri copri di trovare una nuova prossemica: lo stare vicino dei figli con genitori, dei fratelli, dei partner. Il condividere il pane, ogni pane, come rinvenimento di quel calore che è fonte sorgiva di ogni altro genuino calore. Se la mancata distanza intercorporea può veicolare la morte, viviamo una distanza nuova. Riscopriamo la vicinanza, la prossemica delle anime, che è al contempo memoria del corpo dell’altro che mi ‘assiste’.
Il coronavirus ci costringe a prendere ordini dall’alto, a vivere in una società ‘verticale’. Il virus insomma fa emergere i nodi della nostra ‘società orizzontale’, della nostra formazione all’autonomia e alla responsabilità. Basti notare il disagio dei governanti ad imporre regole necessarie per la sopravvivenza e il corrispettivo fastidio di chi è abituato a non ricevere comandi. I giovani sembrano i più restii ad accettare i cambiamenti imposti dal coronavirus. Sono cresciuti spesso con l’illusione di essere onnipotenti e non hanno avuto il tempo di imparare che ogni limitazione richiede la capacità di trasformarsi. È la legge dell’evoluzione: una specie sopravvive se è capace di cambiamento. Il coronavirus può diventare una lectio magistralis di antropologia se riusciamo a cogliervi l’appello ad un vivere, e ad un vivere insieme, intessuto nelle trame della vita e della morte, dell’amore di sé e dell’ amore dell’altro. Cogliamo la sfida di questo momentio prima che diventi abitudine e rituale il nuovo stile di vita. Torniamo ad imparare che si vive con pienezza se si sa che con certezza si morirà. Si vive con pienezza se si accetta la sfida dell’alterità e la necessaria trasformazione del limite. Se ritroveremo la centralità dell’abitare noi stessi e la Terra come una casa, il corona virus non ci avrà terrorizzato invano. «E c’è dell’oro, credo, in questi tempo strano. Forse ci sono doni». (Mariangela Gualtieri).
(*) – L’autore è psicologo e psicoterapeuta, direttore dell’Istituto Gestalt Therapy Kairos (Roma, Venezia, Ragusa)
– Nell’immagine in evidenza: Paul Klee – Sotto custodia d’angelo, 1931