Siamo entrati nella fase due, quella in cui potremo gradualmente e con discrezione riprendere le attività ma … facendo attenzione a mantenere la distanza di sicurezza, indossare la mascherina e avendo cura di lavare spesso le mani. Il virus non è debellato, è solo indebolito, per il calo dei contagi e, forse, per la stagione calda. Siamo stati bravi nella fase uno, abbiamo fatto il sacrificio di non uscire di casa, non fare passeggiate e non incontrare gli amici, non pregare insieme, perfino a Pasqua, non fare le tradizionali uscite fuori porta. Il senso di comunità è stato messo a dura prova. Eppure ci siamo riusciti!

Adesso, sapremo tenere la mascherina che ci copre il volto, che crea un impedimento nella nostra comunicazione? Ci laveremo le mani spesso quando siamo fuori casa anche a rischio di essere tacciati di ossessivi e paurosi? Riusciremo a mitigare il nostro carattere meridionale, caldo e spontaneo, rinunciando a raggiungere l’altro con la vicinanza corporea, e mettendo al primo posto il rischio del contagio?  E chi invece è più sensibile e ansioso riuscirà a uscire di casa e incontrare persone gestendo il rischio di contagio, che come sappiamo rimane?

Paradossalmente è stato più facile obbedire all’imperativo chiaro di restare a casa, che non avere adesso una maggiore libertà di scelta. Per due motivi: perché non è facile sentirsi al sicuro tornando ai contatti sociali e perché è più difficile avere noi la responsabilità della scelta.

Certamente in questa fase molte più cose vengono lasciate alla nostra responsabilità, e questo ci rende incerti. Vorremmo più chiarezza dal governo, ma in realtà qualsiasi decreto può darci una sicurezza solo relativa. Siamo noi che dobbiamo capire bene i rischi e soprattutto dobbiamo accettare che non possiamo controllarli tutti. C’è un rischio maggiore, insomma, in questa fase, e siamo chiamati a re-imparare a stare con gli altri gestendo l’incertezza.

Come in tutto ciò che si affronta per la prima volta, ci vuole un’attenzione importante sul nostro sentire corporeo e spirituale innanzitutto, due esperienze profonde che ci guidano in questa novità. Alcuni di noi hanno paura di uscire, di incontrare persone che potrebbero essere positive, di essere causa di contagio per gli altri. Altri attingono alla forza, a ciò che si deve fare per tornare a vivere, e non danno importanza alla paura, all’incertezza.

L’ascolto di noi stessi, il mantenere la consapevolezza delle emozioni, belle o spiacevoli che siano (come quando incontriamo i nostri cari finalmente, o abbiamo paura di stare nella stessa stanza con i colleghi di ufficio) è fondamentale per trovare le risposte. La gioia di incontrare una persona cara non può essere negata dall’impossibilità di abbracciarla. D’altra parte, la paura di stare a stretto contatto con altri, anche con persone amiche, non deve farci sentire dei codardi. La paura è una risposta adeguata al contagio. Al contrario, sarebbe sconsiderato negarla. Non siamo noi che dovremmo essere più coraggiosi quando, per esempio al supermercato, una persona si avvicina oltre la distanza di sicurezza. Il coraggio, in questo caso, consiste nel chiedere di mantenere la distanza, così come in ufficio consiste nel trovare una soluzione che consenta la distanza di sicurezza e il ricambio dell’aria. Non dobbiamo avere paura di avere paura.

Ma il rischio biologico e solo uno dei tanti che affrontiamo nella fase due. Un rischio che mi sembra altrettanto importante è quello di tornare a vivere come prima, come se non fosse successo nulla. La fase due ci mette alla prova: abbiamo imparato che la vita di tutti (non solo la nostra) è un bene prezioso e che dobbiamo proteggerla? Che proteggere un essere umano in condizioni di debolezza – un povero, un bambino, un anziano – equivale a salvare anche noi stessi? Apprezziamo il valore essenziale della vita, il sole e la terra, il pane, il lavoro, o torniamo ad accumulare ricchezze, a cercare di salvarci da soli, a fare a pugni per conquistare un posto di potere? Un soffio di vento in un mercato cinese è bastato a creare una pandemia in tutto il mondo. Siamo fragili e biologicamente interconnessi, solo se tutti rispettiamo la vita e la diversità potremo continuare a vivere nel nostro pianeta.

Ci siamo fermati tutti nella fase uno, e abbiamo imparato a stare con le cose semplici, a gestire il tempo diversamente, a cucinare, prenderci cura della casa e dei nostri cari, tanti genitori hanno imparato a stare a casa con i bambini, li hanno aiutati a fare i compiti, e a vivere questa pandemia con fiducia in se stessi (“ce la faremo”).

La mia preghiera oggi si appella alle parole di papa Francesco, che (parlando degli artisti) ha chiesto per tutti al Signore il dono della creatività.

La creatività ha bisogno di non negare le emozioni, al contrario è capace di integrarle e indirizzarle ad un progetto che trascende l’artista stesso. Se abbiamo fede in ciò in cui crediamo e non neghiamo né la realtà né le emozioni, compresa soprattutto la paura, potremo trovare soluzioni creative che ci consentono di fare lo stesso ciò che vorremmo, senza negare la realtà.

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

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– Foto immagine in evidenza: Luca Pizzuto

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