A confronto con Francesco Giorgino, giornalista e docente alla Luiss:
“Serve un’azione strategica mirata a responsabilizzare
anche i fruitori dei contenuti mediali”

Un processo già in atto e che adesso la pandemia ha, in qualche misura, contribuito ad accelerare. Il rapporto tra chi “produce” informazione e chi fruisce di questi contenuti – indipendentemente dal mezzo scelto – ha bisogno di individuare un nuovo punto di equilibrio rispetto a quanto accaduto sin qui. Un percorso che non può delegarsi a una sola delle parti ma che va compiuto assieme avendo cura di non smarrire la consapevolezza che è il pubblico a dover restare al centro dell’attenzione del giornalismo. E lungo questo percorso i giornalisti devono continuare ad avere come costante punto di riferimento formazione professionale, etica e deontologia; al tempo stesso, i fruitori dei contenuti di informazione vanno sostenuti con una strategia mirata di responsabilizzazione.

Francesco Giorgino

E’ un’analisi di ampio respiro quella che fa Francesco Giorgino, giornalista e professore alla  Luiss dove insegna Content Marketing & Brand Storytelling e Newsmaking. Volto noto al grande pubblico soprattutto per essere conduttore del Tg1 Rai delle 20 ed editorialista, Francesco Giorgino è  autore di molti saggi sulla politica, la comunicazione, il marketing e naturalmente il giornalismo. Il suo ultimo libro è: Alto Volume – Politica, comunicazione e marketing edito da Luiss (seconda edizione 2020). Per la stessa università dirige anche il Master in Comunicazione e Marketing politico ed istituzionale.

Questo confronto a tutto campo con lo studioso e docente universitario non può non prendere le mosse dall’emergenza coronavirus.

  • Che racconto è stato quello che ha fatto, e sta facendo, il sistema dell’informazione italiana nel suo complesso?

Dobbiamo distinguere tra la Fase 1 e la Fase 2. Nella prima fase, quella del contrasto alla diffusione del virus e del contenimento del contagio, il sistema dell’informazione ha concorso ad accreditare nel Paese la cultura della resilienza e l’etica della responsabilità, per dirla con Max Weber. Se molti cittadini hanno osservato le disposizioni di distanziamento fisico inter-personale è perché i media mainstream, televisione del servizio pubblico in testa, hanno saputo spiegare quello che stava accadendo e al tempo stesso hanno saputo persuadere i pubblici circa l’importanza del restare a casa. Nel complesso, si può dire che il sistema dell’informazione, sia pur in chiave di effetti conativi (come li chiamiamo nella sociologia della comunicazione) ha dato rilevanza all’azione del governo riconoscendone la quasi esclusiva titolarità nella gestione dei processi di comunicazione istituzionale. Processi scaturiti da tre momenti distinti, almeno dal punto di vista diacronico: non valutazione, sottovalutazione e giusta valutazione del Covid-19. Nella narrazione pandemica ad opera dei media sono stati proiettati sia i simulacri degli enunciatori, appunto le istituzioni nazionali e regionali impegnate in prima linea in questa emergenza, sia i simulacri degli enunciatari, ovvero gli italiani le cui storie di piccolo e semplice eroismo quotidiano, di pazienza, di solidarietà, di socialità digitale hanno conquistato la luminosità del pubblico. Utilizzo le espressioni “simulacri degli enunciatori” e “simulacri degli “enunciatari” ricorrendo ad uno dei modelli più noti della semiotica proposti da Eco. Detto in termini più semplici, tra emittente e ricevente del processo comunicativo si è verificata una saldatura piena che ha comportato anche alcune precise conseguenze sotto il profilo della definizione della domanda e dell’offerta di informazione. In ordine alla seconda, si ricordi il consolidarsi di tre fenomeni: la monotematicità ad esito dei processi di newsmaking; un coverage mediatico sia da parte dei programmi d’informazione, sia dei programmi d’intrattenimento leggero; il coinvolgimento di molti scienziati, alcuni dei quali elevatisi o elevati dai media a rango di star. Quanto alla Fase 2, abbiamo riscontrato un graduale ritorno alla normalità della programmazione televisiva e radiofonica, parimenti a scelte di selezione e gerarchizzazione delle notizie più in linea con le routine burocratiche produttive delle testate. In questa fase si è registrato e si registra un maggior protagonismo delle Regioni, che nella Fase 1 erano state sì presenti, ma specie in chiave di contrapposizione tra schieramenti e partiti. Fenomeno abbastanza prevedibile visto che, almeno a marzo e aprile, il Parlamento ha avuto un ruolo molto limitato, creandosi così i presupposti perché il confronto tra maggioranza e opposizione assumesse le sembianze della dialettica in chiave politica tra Governo e Regioni”.      

  • Disinformazione e fake news stanno rappresentando, specialmente in questo periodo così complicato, due grossi scogli lungo la rotta di chi naviga soprattutto nel web. Per contrastarne la diffusione si punta anche su una proficua alleanza tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Ma saranno davvero le “macchine” a salvarci?

Le macchine possono aiutarci, ma non ci salveranno. È la condotta umana a fare la differenza. Di emittenti e riceventi. Nel 2013 il Word Economic Forum ha inserito la disinformazione tra i rischi globali del pianeta. Nel 2016 l’Oxford Dictionary ha stabilito che la key word dell’anno dovesse essere “post-truth”. Nel 2017 il Consiglio d’Europa ha elaborato, infine, un rapporto intitolato Information disorder con due tipologie applicative. La prima è quella della disinformation, ovvero la volontà di costruire notizie false per orientare comportamenti collettivi dopo aver modificato idee e opinioni individuali. La seconda è la misinformation, ovvero la diffusione involontaria di notizie false che si propagano in modo virale, indipendentemente dall’azione del produttore dei contenuti. Agcom si è occupata del tema delle fake news, della percezione della realtà e delle sue ricadute sulla disinformazione.

Aldo Mantineo

In Italia il 57% della produzione di contenuti fake riguarda argomenti di politica e cronaca, mentre circa il 20% riguarda questioni di carattere scientifico. Circa il 60% degli italiani inoltre ha una falsa percezione di fenomeni misurabili in senso oggettivo e riguardanti diversi temi: economia, scienza ed ambiente, immigrazione, lavoro, criminalità. La diffusione di false percezioni può comportare come effetto indiretto anche la diminuzione della capacità di reazione dei cittadini davanti all’offerta di contenuti fake. Le “dispercezioni” rendono meno riconoscibili, meno contrastabili i fenomeni di disinformation e malinformation. In linea generale si può dire che più è alto il livello di istruzione ed il livello di occupazione, più è basso il valore di dispercezione negativa e quindi la possibilità di sbagliare. In linea generale, dobbiamo abituarci a confrontarci non solo con la dicotomia vero/falso, ma anche con quella più pericolosa vero/verosimile. È evidente che il problema non si può risolvere solo con la regolamentazione dei comportamenti degli operatori della comunicazione e dell’informazione. Serve un’azione strategica mirata a responsabilizzare anche i riceventi, ovvero i fruitori dei contenuti mediali che viaggiano attraverso i canali tradizionali e quelli social”.

  • Quanto “pesa” oggi, nel sistema dell’informazione più strutturata, il fattore-social? Sempre più programmi, non soltanto di intrattenimento, utilizzano i social come “finestra” aperta sulla quotidianità: non si corre, così, il rischio di alimentare quel processo di crescente disintermediazione che, di fatto, sta marginalizzando, nel racconto del Paese, il ruolo degli stessi giornalisti?

Pesa tanto. Viviamo all’interno della cosiddetta platform society, ovvero della società delle piattaforme digitali. Già Innis e la Scuola di Toronto segnalarono molti anni fa il significato del “determinismo tecnologico”: una tecnologia che non si limita a favorire il cambiamento sociale, ma lo determina. Il connubio tra umanesimo e digitale è indispensabile. Oggi più che mai. La crisi pandemica ci ha dimostrato da questo punto di vista due cose. La prima: il termine “dis-intermediazione” può essere incapiente dal punto di vista semantico rispetto all’esigenza di rappresentare la complessità dei fenomeni in corso. Meglio forse ricorrere all’espressione “mediazioni altre” o “mediazioni plurime ed allargate”. Insomma, meglio ricorrere al concetto di re-intermediazione secondo una dinamica in grado di innescare processi di semiosi illimitata. La seconda: piattaforme come Facebook, Instagram, Twitter, ecc. hanno intercettato una domanda di relazionalità durante il lockdown che mi induce a prendere in considerazione l’ipotesi che non ci siano solo legami sociali deboli alla base dell’uso così diffuso e così orizzontale dei social network e dei social media. Il giornalismo non deve fare un passo indietro, ma presidiare questi territori di produzione di senso e aiutare il pubblico nella sua attività di decodifica dei contenuti editati e condivisi sulle piattaforme. Si può sostenere che è cambiata la delega del pubblico al giornalismo. Si è passati da una delega a selezionare il materiale notiziabile, ad una delega a monitorare il flusso”.  

  • Oggi nel tradizionale processo di produzione-diffusione di una notizia assume sempre più rilevanza la velocità di condivisione sui social: non di rado a fare le spese di questa corsa al like è la necessaria operazione di verifica che viene ridotta a poco più che una formalità. E’ un rischio concreto? E che peso ha?

Certamente ha un peso molto grande. Rispondo a questa domanda, anche in questo caso facendo riferimento a due questioni. La prima è relativa alle caratteristiche del nuovo ecosistema comunicativo. Nel mio ultimo libro “Alto Volume” edito da Luiss e oggi alla sua seconda edizione ho raccontato l’intreccio tra informazione, comunicazione e marketing in relazione alla politica. Si tratta di tre parole che un tempo avremmo considerato separatamente l’una dall’altra, ma che oggi dobbiamo considerare come collocate, appunto, all’interno di un unico grande ecosistema. Una prospettiva che presenta luci ed ombre. La seconda questione è relativa al modo in cui i pubblici, sempre più interattivi oltre che attivi, si comportano nelle loro migrazioni quotidiane sui social. Il premio Nobel per l’economia, lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, ha invitato a distinguere tra il “pensiero veloce” e il “pensiero lento”, sapendo che il primo, a differenza del secondo, si poggia sul basso impegno cognitivo, sulla scarsa disponibilità ad elaborare le informazioni. L’individuo utilizzerebbe il “pensiero veloce” per far leva su dinamiche cognitive di tipo analogico-associativo, frutto di sostanziale pigrizia mentale ed utilizzerebbe il “pensiero lento”, ovvero il ragionamento, per avvalorare le proprie convinzioni e proteggere le proprie idee in un percorso logico-mentale di tipo “verificazionista”, anziché “falsificazionista”. Attenzione perché anche il pensiero lento presenta criticità, come quelle legate alla creazione di filter bubbles e di eco chambers. Per questo insisto nell’investire in progetti di media education che vadano nella doppia direzione di “educare ai media” ed “educare con i media”.

  • Tra i nuovi termini entrati nel nostro “vocabolario della pandemia” c’è infodemia, questa condizione di sostanziale immersione 24 ore su 24 nelle notizie. Secondo alcuni questa abbondanza di informazioni disponibili, questo stato di sostanziale connessione perenne, rappresenta un problema. Ma si può mai considerare “troppa” l’informazione o, invece, abbiamo perso la capacità di orientarci e di separare ciò che é notizia da ciò che non lo è?

Non c’è dubbio che ci confrontiamo quotidianamente con un diluvio di informazioni che qualcuno scambia per informazione. L’infodemia è una variabile dell’overload informativo. Se nel XX secolo la qualità della democrazia era correlata alla quantità dell’informazione, nel XXI secolo il binomio su cui lavorare è qualità dell’informazione/qualità della democrazia. Per questo occorre ridare centralità al giornalismo, chiedendo a questa organizzazione professionale e a questa comunità intellettuale di contrastare i disegni della società individualista e liquida e di proporsi come mappa concettuale di fronte alla ipercomplessità del nostro tempo. Non dimentichiamoci che il giornalismo si regge su competenze tematiche, relazionali, tecniche, espressive e soprattutto deontologiche. Ogni tanto conviene ricordare a chi ci legge, ci ascolta, ci vede chi sono i giornalisti e quale loro funzione sociale. Per farlo, però, dobbiamo rinunciare all’autoreferenzialità e alle troppi dosi di strabismo ideologico che contraddistinguono il nostro tempo. E’ il pubblico che deve restare al centro dell’attenzione del giornalismo, ma senza creare dipendenza da esso. Una sfida che si può realizzare lavorando sul doppio fronte della formazione professionale e dell’etica”. 

 

Aldo Mantineo, giornalista e scrittore ha lanciato l’instant-book “FakecraziaL’informazione e le sfide del coronavirus” , edito in formato ebook da Media&Books. Il libro sarà gratuitamente disponibile fino al 15 giugno, per il download (da lunedì 4 maggio) da GooglePlay oppure è scaricabile (lecitamente) da Telegram (t.me/media_books) o si può richiedere all’editore: mediabooks.it@gmail.com.

 

 

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