Titolo della settimana: Il processo ai 7 di Chicago, di Aron Sorkin, 2020.
Bellissima sorpresa cinematografica in questo orribile 2020 è rappresentata da questa pellicola che possiamo considerare sin da ora e senza ombra di dubbio uno dei migliori prodotti dell’anno, e che possiamo vedere su Netlix, visto che, come di solito accade nel nostro strano paese, la scellerata distribuzione ha deciso già a settembre di toglierlo dal circuito, non essendo un cinepanettone con DeSica e Boldi; questo senza fare pubblicità gratuita ma è anche una constatazione dovuta alle restrizioni pandemiche
Prodotto dalla Dreamwork’s di Steven Spielberg, che in un primo momento avrebbe voluto lui stesso dirigerlo già nel 2007, ma in seguito lasciato nelle mani sicure di Aron Sorkin alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, a tre anni di distanza dall’esordio con Molly’s game.
Dicevamo di Aron Sorkin, nato a New York nel 1961. È un drammaturgo-scrittore,
Storia che ha inizio in una torrida, in tutti i sensi, estate del 1968, quando un gruppo di pacifici manifestanti antivietnam formato da padri di famiglia, yuppies, studenti di collage, idealisti e Black panters violò il coprifuoco attorno all’International Theatre di Chicago, dove era in corso di svolgimento il Congresso annuale del Partito Democratico. Questo gruppo eterogeneo di persone riunitosi per manifestare pacificamente venne incredibilmente accusato di aver causato disordini e guerriglie urbane contro la Polizia e la Guardia Nazionale, quando in realtà furono questi ultimi a causare i disordini. Contro 8 di loro, poi diventati 7 (i Seven)un anno dopo venne istituito un processo “superpilotato” dal Governo Nixon con a capo il giudice Julius Hoffman, braccio armato del Presidente, dove tutto sembra deciso e scritto in partenza e senza la concreta possibilità di difesa, nonostante la bravura e la dedizione degli avvocati difensori.
Sorkin da grande sceneggiatore riesce da subito com un ritmo incalzante e un montaggio alternato a descrivere gli accadimenti con andirivieni e flashback tra i fatti accaduti e l’aula giudiziaria, dove si svolge la maggior parte del film, e usando anche immagini di repertorio; inoltre, cosa fondamentale, riesce da subito a mettere ben a fuoco i tantissimi personaggi della vicenda in modo da imprimere il tutto nella testa dello spettatore. Siamo nel 1968 anno drammatico e delicatissimo della storia americana, scossa sin dalle fondamenta con gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy, a pochi anni dalla ferita ancora aperta di Dallas e con la sporca guerra vietnamita in corso, avrete capito il quadro: una Polveriera. Il film ricostruisce in maniera pressoché perfetta e nei minimi particolari il clima politico e l’aria irrespirabile dell’epoca e il crescendo di intimidazioni e minacce contro i Seven e anche, cosa ben più grave, contro i giurati. Il tutto condito con false testimonianze contro i 7, capri espiatori dati in pasto all’opinione pubblica per distrarla dalle magagne dello stato; fatti che si snocciolano sotto l’abile regia del giudice Hoffmann, un gigantesco Frank Langella che insieme a Sasha Baron Coehn, Joseph Gordon Levitt e i già premi Oscar Mark Rilence e Yhaya Abdul Mateen trascinano letteralmente la pellicola. Da sottolineare anche un incisivo Michael Keaton in una piccola ma importante apparizione. Pellicola secondo me destinata a numerosi premi e riconoscimenti, perché i grandi film sono anche quelli che parlando del passato si rivolgono al presente e soprattutto perché il 2020 americano ha ricordato per certi versi il 1968, fortunatamente in scala minore ma con lo stesso impatto sociologico ed emotivo, soprattutto al giorno d’oggi, in una società più propensa ad ammettere gli errori e le responsabilità per le tragedie del passato per evitare il ripetersi di questi eventi. Non lasciatevi sfuggire questo film, perché anche in questo funesto 2020 il Cinema è sempre vivo.
Buona buona visione.