“La buona comunicazione non cerca di fare colpo sul pubblico con la battuta ad effetto, con lo scopo di ridicolizzare linterlocutore, ma presta attenzione alle ragioni dellaltro e cerca di far cogliere la complessità della realtà”.

Mi piace provare a ragionare a bocce ferme, a oltre una settimana di distanza da quando Papa Francesco ha  consegnato a noi tutti  queste parole contenute nel suo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (divulgato, come di consueto, in occasione della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti),  sul valore di una corretta informazione. E sottolineo informazione, che non è concetto né assolutamente coincidente né equivalente o sovrapponibile sic et sempliciter a quello di comunicazione.

Sostengo questo  perché sono assolutamente convinto che mai come in questi momenti, segnati da troppe incertezze anche sul fonte della buona informazione, se non rimettiamo in asse e in inscindibile relazione questi due termini portanti – appunto, informazione e giornalismo – tutto ciò che vi costruiremo sopra scricchiolerà sempre di più sino a collassare, a cedere, a rovinare a terra. E sotto quelle pesanti macerie resteranno inevitabilmente intrappolate anche persone, progetti di vita, legittime aspirazioni, umane ambizioni.

Non può esistere informazione senza giornalismo vero.

E qui non è soltanto questione di quale sia il mezzo fisicamente usato (e dunque la carta, la rete, la radio, la tv) o dell’ambiente nel quale ci si  muove (vale a dire la concreta quotidianità che scorre oggi sotto i nostri occhi o il metaverso che verrà). Il giornalismo era e rimane quell’insostituibile mediazione professionale – fatta di competenze e valori, di studio e di formazione, di impegno professionale e di rigore etico, di leale passione civile senza prevaricazione – che fa sí che un fatto adeguatamente “lavorato” diventi notizia. Perché, sia ben chiaro, non tutti i fatti sono automaticamente notizia.

Eppure, se dovessimo invece giudicare da quel che è oggi il sentire più diffuso e comune, sembrerebbe proprio il contrario: un malinteso senso del termine velocità che fa rima sempre più con superficialità unito all’aver relegato al   ruolo di una pratica arcaica l’indispensabile azione di verifica, ha fatto sì che tutto il fluire indistinto sullo schermo di un tablet o di uno smartphone sia considerato notizia.

È il trionfo di quella disintermediazione sull’altare della quale sono state sacrificate competenze e merito. E i  risultati sono ben visibili anche in questi anni travagliati, segnati dalla convivenza forzata con la pandemia, con la sostanziale equiparazione del “peso” di opinioni formulate da esperti che hanno forgiato il loro sapere su libri e ricerche strutturate andate avanti per anni ed altri “laureati” sulla base di cognizioni ricavate, al più, da qualche ricerca on line durata qualche oretta e  condotta sui motori di ricerca!

Siamo in un vicolo cieco senza via di uscita? Decisamente no. Ma trovare questa exit strategy dipende innanzitutto da noi. Dalla nostra voglia (e capacità) di saper cercare – e riconoscere – la vera informazione, valorizzarne la specificità, spenderla con giudizio. E in questo percorso, certamente complesso, devono esserci sistematici compagni di viaggio due termini preziosi: accuratezza ed ascolto. Accuratezza nel senso di dedicare tempo, riflettere, ricostruire con calma un evento da raccontare; ascolto come primo e indispensabile ingrediente di ogni progetto di buona comunicazione (informazione compresa). È la capacità di mettersi in discussione, di mettere in discussione il proprio punto di vista. È il coraggio di cambiare idea, di riconoscere un errore. Perché, come ha scritto ancora il Pontefice, “Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire uninformazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo”.

Parole queste che devono risuonare come un richiamo a chi professionalmente si occupa di fare informazione, a chi opera – non importa con quale ruolo – su una “macchina” ormai ridotta all’ombra di sé stessa con redazioni desertificate, competenze inaridite, professionalità ridotte al lumicino. Ma questa flebile fiammella va tenacemente difesa e, al più presto, adeguatamente alimentata. E questo è un compito che investe tutti. Perché in ballo non ci sono “solo” posti di lavoro (importantissimi) e significative esperienze imprenditoriali che hanno anche contribuito a tracciare il percorso di crescita del Paese.

[*] Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…)

Credito immagine in evidenza: Agensir/Marco Calvarese

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