Una strada stretta e lunga, simile a un budello o meglio a un’arteria pulsante di vita in cui scorre una variopinta umanità.

Ne ostruisce il fluire la disordinata presenza di banconi e teloni che, costeggiando la via, offrono alla vista un’ostensione di carne rossa e pescato azzurro, di frutta e verdura, merce in vendita resa accattivante dal contrasto degli accostamenti cromatici, i gialli e i rossi dei peperoni, il verde dell’insalata, il nero delle melanzane, l’arancione delle arance, i viola del radicchio. Qualità organolettiche rimarcate dai giochi di luce che attraverso i colori dei teloni intensificano la freschezza del prodotto, come il riflesso del rosso che riverberato sulle squame iridescenti restituisce lucentezza al pesce o dona una sfumatura più sanguigna alla carne. Tecniche espositive sapientemente messe in atto, apprese e trasmesse da una generazione all’altra come l’imbonimento, la voce urlata, gridata, strozzata, l’abbanniata salace e impertinente tesa ad attrarre gli avventori, quel ghirigoro vocalico che richiama certamente il mondo arabo, ma anche altri contesti tradizionali ed ergologici, appreso in illo tempore e quotidianamente rievocato e riattualizzato attraverso le voci dei mercatari di Ballarò (cfr. Bonanzinga S., 2006, Il teatro dell’abbondanza. Pratiche di ostensione nei mercati siciliani, in AA.VV. (a cura di), Mercati storici siciliani pp. 85-118, Palermo: Ed. Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali). Ubicato nel quartiere dell’Albergheria, Ballarò è uno dei mercati storici di Palermo, un luogo deputato allo scambio commerciale, ma che si configura anche come spazio privilegiato di intense relazioni sociali tra i singoli, i gruppi e la comunità. A sovraintendere tali rapporti si staglia uno spirito benevolo, un nume tutelare, un genius loci, è la cupola del Carmine Maggiore. Non semplice elemento architettonico caratterizzante il paesaggio, la cupola è interpretata dai mercatari e dagli abitanti dell’Albergheria come presenza antropomorfa, animata, a cui indirizzare il proprio sguardo per affidarsi alla Madonna. Stella del mare, faro, punto cardinale che illumina, orienta e guida, basta alzare lo sguardo sull’edificio e trovarla, bellissima con i suoi zaffiri e smeraldi, per avere contezza della protezione di Maria. Progettata alla fine del XVII secolo da Don Angelo La Rosa è la più bella di Sicilia ed osservandola uno spettacolo meraviglioso si offre ai nostri occhi, inscenato dall’infrangersi dei raggi del sole sullo smalto delle maioliche policrome, dall’esplosione di minuscoli scintillii che si disperdono vibranti nel cielo blu. Brilla la cupola con la superficie sezionata in quattro spicchi che fiera esibisce, in ogni centro, lo stemma carmelitano, acceca lo sguardo la bianca parte scultorea con la barocca profusione di elementi fitoformi tra colonne e capitelli mentre quattro vigorosi uomini, i telamoni, coprotagonisti della scena sorreggono il suo peso. Arduo cimento il loro compito, ma come osserva sempre Padre Pietro Leta, Rettore del Carmine Maggiore, nessuno sforzo altera i tratti del loro viso: è un cielo lieve quello che portano sulle spalle. Simbolicamente la cupola riproduce la volta celeste, è asse del mondo che mima la perfezione dell’universo, unica via di accesso per gli uomini a Dio, la cupola in questo senso è porta del cielo come porta del cielo è Maria. Nel sentire popolare uno slittamento semantico e un inestricabile identificazione sovrappone l’elemento architettonico a Maria del Carmelo, in questo modo sembra prendere forma l’amore per la cupola, per quel suo essere significante architettonico che rinvia ad un significato più profondo, ad una dimensione che trascende l’esistenza individuale mentre ne pacifica le pene, gli affanni, i dissidi, rifugiandosi sotto il manto di Maria. Senza tempo lei resta lì con il suo eterno valore mentre le generazioni si susseguono tramandandosi l’amore e la fede per la madre celeste.

La cupola del Carmine Maggiore è quindi astro fisso per chi partecipa a tale dimensione, per gli abitanti dell’Albergheria, per i mercatari, ma è faticosamente accessibile per chi, al contrario, non conosce il territorio. La cupola sembra infatti giocare con la percezione di chi vorrebbe raggiungerla come ben evidenzia Allie Traina. Visibile da lontano, inizia progressivamente a nascondersi a quanti la cercano e come un miraggio si dissolve quando sembra più vicina (cfr. Traina A., 2015, 101 storie su Palermo che non ti hanno mai raccontato, Edizioni Newton Compton Editori, Roma). Incantata dall’effetto fata Morgana la cupola protegge un regno pieno di tesori: è il convento e la Chiesa del Carmine Maggiore, luogo abitato dagli ultimi crociati e da una regina vestita d’argento (cfr. Clemente A., Palermo, Appunti su una città invisibile, in «Dialoghi Mediterranei», rivista online, Settembre 2022, n.57, pp. 410-413). La tradizione vuole che l’ordine carmelitano abbia origine nel XII secolo quando un gruppo di crociati si rifugia sul Monte Carmelo nel nord della Palestina e sull’esempio del profeta Elia organizzano una comunità eremitica dedita alla contemplazione, il cui centro è Maria affettuosamente chiamata madre e sorella, tanto da essere precipuamente identificati, nei secoli successivi, come Fratelli della Beata Vergine del Monte Carmelo.

Costretti dall’avanzata araba in Terra Santa, durante i primi decenni del 1200, iniziarono a spostarsi verso l’Europa e secondo la leggenda giunsero in Sicilia su invito della regina Adelasia, che vedova del conte Ruggero D’Altavilla e volendo assicurare al figlio Ruggero II un maggior peso politico strinse un’alleanza con Baldovino re di Gerusalemme, attraverso un accordo matrimoniale che vincolava alla morte del re il transito dei possedimenti, tra cui Gerusalemme, al figlio. Giunta in terra santa Adelasia trova amicizia, supporto e consolazione nella comunità dei silenziosi romiti che abitavano sul Monte Carmelo e al suo ritorno in Sicilia, dissolta l’unione matrimoniale chiese loro di seguirla. Qui a Palermo donò la chiesetta della Madonna della Pietà ancora oggi posizionata sul lato destro dell’altare maggiore e accessibile mediante l’area dell’altare della Madonna del Carmelo. È una piccolissima cappella che reca le tracce dello stile romanico nei suoi archi a tutto sesto e l’impronta gotica nei costoloni del soffitto, ed un basso rilievo dell’ Agnus Dei di epoca successiva, il cui valore non è soltanto da ricondurre al suo essere mera testimonianza artistica e architettonica. È straordinario, infatti, pensare considerando le importanti costruzioni e ricostruzioni della chiesa prima di giungere all’assetto attuale, come quell’originario nucleo dove si addensa la vita spirituale della prima comunità giunta dall’Oriente, sia riuscito a sopravvivere nel tempo, giungendo con il suo carico storico sino a noi, inglobandosi naturalmente nei rimaneggiamenti e difendendo, al contempo, la propria specifica identità di cellula germinale. Baluardo tanto solido e sicuro da diventare fortezza in cui custodire la preziosissima reliquia della Passione, la Sacra Spina, uno dei frammenti lignei della corona di spine che cinse il capo del Cristo, portata da Sant’Angelo di Licata. Questo e altri beni preziosi protegge il Carmine Maggiore, degni di stupore e menzione sono, per esempio, gli stucchi delle colonne tortili di Giacomo e Giuseppe Serpotta inserite presso gli altari delle cappelle della Madonna del Carmelo e del Crocifisso nei transetti, o ancora la Madonna dell’Udienza, opera del Gagini.

Regina di questo regno è la magnifica statua lignea della Madonna del Carmelo, cchiù bedda di oggi all’annu, opera di Girolamo Bagnasco e vestita da un fiabesco abito d’argento su cui sbocciano delicati fiori, una raffinata opera dell’argentiere Giuseppe Castronovo per il Fiore del Carmelo. Il simulacro è oggetto di una particolare e forte devozione che vede una lunga e precisa preparazione rituale, articolata nei tradizionali sette mercoledì, e che trova il suo acme durante l’ultima domenica del mese di Luglio con l’uscita processionale, momento in cui il fervore popolare trova ristoro nella visione del sembiante di Maria. Il Carmine Maggiore è una realtà densa e nel suo spazio dialogano storia, architettura, arte, tradizione e devozione, aspetti impossibili da isolare o dissociare, una realtà stratificata in cui ogni elemento è irrelato e correlato all’altro, una dimensione dialogica il cui discorso non si limita allo spazio interno ma si estende agli uomini e alle donne, fedeli e non, al territorio fortemente connotato dalla sua presenza, a quel rapporto elettivo con il mercato. Se infatti questo è arteria la Chiesa del Carmine Maggiore rappresenta il cuore che pompa, la sede della memoria, una memoria da difendere e continuare a tramandare, nel senso intimo dell’etimo del mandare attraverso le generazioni, nell’impegno etico e morale di trasmettere quanto ricevuto. Ed è per questo che in occasione del censimento dei Luoghi Del Cuore promossa dal Fai ognuno di noi di fronte al valore inestimabile di questo luogo abbiamo la responsabilità di votare e proteggerlo.

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