IN RICORDO DEI CENTO ANNI DALLA NASCITA
(Solarino 15 luglio 1924 – Siracusa 15 luglio 2024 -Morto a Siracusa il 26 dicembre 2007)
Fondatore con Don Alfio Inserra e primo direttore del Settimanale CAMMINO.
Mons. Sebastiano Gozzo era un uomo e un sacerdote proiettato sempre nel futuro. Pertanto ogni sua azione nel momento in cui si compiva perdeva ai suoi occhi quello cura particolare che aveva avuto nel costruirla. Il compimento di un’azione, la realizzazione di un progetto, l’attuazione di un’idea era il segno che si poteva e si doveva andare avanti alla scoperta di nuovi orizzonti, scommettendo su nuove conquiste e non sempre facili traguardi. Per questo si può dire che era un uomo costantemente ma “serenamente in tensione”. Tanto meticoloso nella elaborazione di un progetto, nell’articolazione di un programma, così esigente e scrupoloso con se stesso e con gli amici che lo collaboravano, fino ad apparire un accentratore e un un controllore minuzioso delle iniziative che elaborava, quanto poco interessato a conservare e anche a documentare la sua immensa produzione pastorale soprattutto tra le giovani generazioni. Era un uomo d’azione. Si direbbe un uomo del “fare metodico”, ma di un fare a lungo pensato e soprattutto di un agire che egli amava rappresentare e comunicare con la parola. Era l’uomo della “parola danzante”, sempre ricca di contenuti, strumento formidabile per afferrare il senso profondo delle vicende umane che egli amava dimostrare essere legate alle realtà rivelate molto più di quanto si potesse immaginare.
Pensiero, azione e parola sono state dunque un’unica realtà in mons. Gozzo. Ha pure scritto molto: appunti di lezioni, schemi di relazioni, tracce per riflessioni spirituali, lettere inviate alla sua comunità in differenti periodi e in diverse circostanze, articoli di giornale e tantissimi editoriali da direttore del Settimanale Cammino. Posso testimoniare, però che non aveva mai pensato di scrivere un’opera sistematica dal punto di vista teologico pastorale. Il suo scrivere, infatti, era dettato piuttosto dalle situazioni concrete che viveva, dal ruolo che assumeva in un determinato momento come insegnante, educatore, teologo, o giornalista. I suoi scritti non sono elaborati per l’espressione sistematica del suo pensiero e della sua opera. Tuttavia posso assicurare che dai testi che ci ha lasciato e che ho pubblicato in un piccolo volume in occasione del decennale della sua morte (1), si può delineare un filo conduttore della sua persona come sacerdote, educatore, leader, e uomo di profonda cultura. Dalla lettura dei suoi testi emerge chiaramente un sacerdote profondamente radicato nel suo territorio; di un uomo che viveva con passione, e anche con una certa sofferenza una fede incarnata nella storia delle realtà nelle quali operava. In modo particolare emerge un leader esigente che chiede alla sua Comunità, ma anche alla sua Chiesa, di essere segno di speranza per gli altri.
Volendo individuare qui, non certo in maniera esaustiva, il punto focale della figura di Don Gozzo ho scelto tre parole che hanno caratterizzato il suo impegno di sacerdote nell’educazione e formazione cristiana e culturale dei giovani: Comunità, Giovani, Politica. Rileggendo infatti le lettere e le relazioni che inviava alla mia Comunità da lui fondata, e grazie all’esperienza mia personale di un rapporto assai fecondo durato parecchi anni, oltre tre decenni e fino al momento della sua morte, queste tre parole mi sembra esprimano in modo appropriato le sue qualità, e delineano assai bene le caratteristiche della sua figura e della sua personalità e del suo impegno pastorale.
Sappiamo che per generazioni intere Monsignore non è stato solo il bravo e zelante prete da ammirare o da ascoltare a motivo del suo affascinante modo di comunicare che non lasciava indifferente. Non è stato soltanto un uomo di cultura con cui era piacevole confrontarsi, per condividere un pensiero o magari per dibattere una tesi opposta alla sua. No! Monsignore è stato prima di tutto ed essenzialmente un sacerdote che ha formato attorno a sé nei diversi luoghi e per le diverse funzioni del suo ministero una Comunità di persone e in modo particolare una Comunità di persone giovani. E’ stato un sacerdote che ai ragazzi che incontrava lungo il suo cammino faceva una proposta forte che era quella di vivere in Comunità. La considerava il luogo storico di accoglienza dell’annuncio di Cristo, luogo di crescita nella fede, segno tangibile per sperimentare il senso dell’essere Chiesa, la quale senza l’esperienza di Comunità rischia di rimanere vaga e lontana. La Comunità come segno di un cristianesimo maturo, frutto di una scelta o meglio ancora di una risposta di comunione con quel Dio che sempre ci chiama per primo. Per lui la Comunità era il luogo relazionale dove vivere la propria vocazione, mentre era molto critico rispetto a situazioni in cui la Comunità viene interpretata come luogo in cui consumare riti abitudinari. E infatti la vita nostra in Comunità non era mai piatta e ripetitiva, ci faceva vivere la Comunità come missione, quindi sempre in movimento, contrapposta ad una realtà statica, cristallizzata che rivendica il proprio status di potere all’interno della società. Con lui, la Comunità l’abbiamo vissuta sempre come una realtà ricca e articolata, che riesce a tirar fuori i diversi carissimi di ciascuno e quindi adatta a valorizzare la persona per ciò che è e per la sua irriducibile specificità. Ma allo stesso tempo ci metteva in guardia dai facili entusiasmi. L’esperienza di Comunità, infatti, è difficile, richiede impegno, a volte sacrifici, e per essere vissuta intensamente ha bisogno di attraversare il deserto, anzi di stare nel deserto, cioè in un luogo di povertà interiore, di distacco dalle cose frivole e superflue che al contrario la città contemporanea offre continuamente. Il deserto dunque! Un’immagine da Monsignore frequentemente richiamata a cui egli piaceva rifarsi e che evocava spesso quando capiva che la vita dei suoi giovani poteva essere condizionata, se non del tutto assorbita dai continui e forvianti stimoli offerti a basso prezzo dalla società contemporanea, spingendo così i giovani a staccarsi dalla Comunità. Il deserto contrapposto alla città. Nel deserto, luogo dove manca tutto, vi è maggiore disponibilità allo stare insieme, e si affina una sensibilità particolare nel percepire i segni di un annuncio salvifico. In altre parole, un luogo interiore in cui il cuore si apre all’altro, dove lo sguardo si protende verso il cielo e la mente è proiettata verso il dopo che deve venire. Ci vuole molta forza. La forza che proviene soltanto da una fede natura che ci fa vivere e sostenere l’esperienza della Comunità.
I Giovani sono stati l’altra dimensione della vita e del ministero di monsignore. Chi si accostasse per la prima volta alla sua figura senza nulla sapere di lui, attraverso la testimonianza di molti di noi che lo hanno seguito, comprenderebbe come la crescita, l’educazione e la formazione dei giovani sia stata la costante preoccupazione di Monsignore. Una preoccupazione condivisa con loro. Egli era credibile agli occhi dei giovani ed essi lo amavano e lo seguivano o lo contestavano, ma sempre con ammirazione e rispetto, perché era capace di comprenderli; trasmetteva una sicurezza particolare che lo portava ad essere dalla loro parte, e senza difficoltà ad essere accettato come uomo-sacerdote direi senza riserve. Don Gozzo non considerava mai i giovani persone in transizione, non prendeva sotto gamba o snobbava i loro problemi e le loro contraddizioni; li considerava sempre con serietà, persone con le quali era interessante, piacevole e stimolante avere una relazione da uomo a uomo, nella quale fosse chiara la pari dignità. Era capace di stare con i giovani, di gioire con loro per ricercare faticosamente insieme a loro il senso comune della vita. E questo lo ha saputo fare senza essere mai accomodante, anzi avendo sempre coraggio di fare proposte forti, di dire sempre la verità del Vangelo, di tutelarla, di riaffermarla in tutte le circostanze nelle quali percepiva il pericolo che venisse offuscata. Il rischio che considerava sempre incombente e il peccato che riteneva maggiormente insopportabile era
l’ imborghesimento della fede, un certo cristianesimo da perbenismo, figlio di chi si sente sazio, di chi non attende più nulla, di chi non ha più bisogno di ricercare, né di camminare; di chi prega Dio per sé cercando il Lui protezione, senza mai mettersi in gioco, rifiutando di offrire la disponibilità al Signore per camminare con gli altri.
Ed invece per Monsignore il giovane che abbraccia la fede doveva assumere l’immagine di chi cammina al passo con il Vangelo e del suo tempo. Quindi l’ identità del giovane doveva essere fondamentalmente quella del pellegrino, ed ecco perché amava gli scout e negli ultimi anni del suo ministero ne è stato guida spirituale. Una persona in cammino si immedesima nella strada, nella montagna, nel sentiero che percorre senza un atteggiamento di possesso. Amava dire ai suoi giovani che bisogna camminare con poche cose, con quelle che contano senza bisogno di piantare tende definitive, ma camminare con l’ inquietudine delle tappe successive da raggiungere. Il pellegrino ha delle certezze ma sono pochissime : la chiamata alla sua vocazione e quindi alla sua missione. Ciò vuol dire che il cristiano deve rendersi libero da ciò che può appesantire la sua fede. Si comprende allora perché quando nel lontano 1983 fu chiamato a dirigere il settimanale diocesano volle che che la testata si intitolasse “CAMMINO”. Per Monsignore si è sempre trattato di avere la capacità di stare dentro la storia degli uomini camminando senza perdere mai di vista il futuro.
Egli infondeva ai giovani fiducia e apriva il cuore alla speranza.
Per queste ragioni i giovani per lui erano la speranza di un cristianesimo, mi passi il termine, più rivoluzionario. Di una rivoluzione interiore e li considerava moventi di cambiamento in tutti gli aspetti della vita secondo l’annuncio del Vangelo.
La Politica fu l’altra dimensione della sua vita. Se Don Gozzo non fosse stato prima di tutto sacerdote, sicuramente si sarebbe impegnato in politica. Era una dimensione dell’’agire umano che lo interessava, anzi direi che lo appassionava. Ha formato generazioni di persone alla politica me compreso. Con la politica della nostra città si è sempre confrontato ponendo questioni alte, problemi impellenti agli uomini delle istituzioni. Era convinto che la Comunità cristiana dovesse porsi il problema della formazione dei laici cattolici alla politica, ben sapendo che la fede e dirsi cristiani non costituivano uno status di privilegio e non conferivano di per se competenze peculiari a chi voleva impegnarsi in politica. Al contrario, in ogni circostanza opportuna, ha sempre affermato con forza che la fede professata pubblicamente imponesse al laico cattolico impegnato in politica un di più di responsabilità, non solo in termini di coerenza con i valori e i principi a cui dice di ispirare la sua azione, non solo in termini di moralità e di trasparenza e di assoluta legalità del suo agire politico, ma soprattutto in termini di studio, di conoscenza e di competenza. Perciò egli si è sempre battuto per la formazione ed ha lavorato per questo, impiegando tempo e risorse personali per formare i suoi giovani all’impegno politico. Ci ha sempre detto che “l’impegno del cristiano attraverso la politica è un modo di vivere la salvezza terrena, e se la politica si lascia illuminare dalla fede diventa un modo di anticipare la salvezza escatologica.” La formazione politica dei laici cattolici era dunque per don Gozzo un imperativo impellente. La Comunità cristiana, secondo monsignore, doveva contribuire alla formazione di una nuova classe dirigente di cattolici impegnati in politica. Il singolo credente, naturalmente, doveva conservare l’autonomia delle scelte partitiche o di schieramento ma doveva farle sempre e comunque sotto la propria responsabilità personale non agendo mai in nome e per conto della Comunità.
Mi fermo, ma ovviamente ci sarebbe ancora tanto da dire di lui. La figura poliedrica e complessa di monsignor Gozzo, la già lunghezza di queste mie riflessioni, non mi consentono tuttavia di andare oltre.
Per finire posso solo dire che mi sento un privilegiato per averlo seguito con la mia comunità per più di tre decenni ininterrottamente dal 1971, da quando lo incontrai al liceo, avevo poco più di quattordici anni, fino al 26 dicembre 2007, giorno in cui è morto ed io gli ero accanto. Generazioni di giovani che lo hanno incontrato, conosciuto, e seguito nel corso degli anni, oggi lo ricordano ancora con grande affetto. Per me è stato amico, maestro, padre spirituale.
Un dono grande del Signore.