di Giuseppe Casale*
In quest’intreccio di ipotesi, equivoci e pressioni sulle “terre rare”, vi sono spunti per tradurre la sceneggiata andata in onda dallo Studio ovale
Le terre rare pesando molto sulla geopolitica contemporanea. Nei giorni scorsi hanno monopolizzato le prime pagine, a proposito della guerra in Ucraina. E oggi offrono spunti di analisi suoi tortuosi risvolti tra Washington, Kiev e la compagine angloeuropea.
I 17 elementi chimici sono ormai fondamentali nel campo civile e militare: hard-disk, turbine eoliche, motori elettrici, magneti per la missilistica, radar, ripetitori di fibre ottiche, visori, laser, schermi al plasma, batterie ricaricabili, ecc. Leader nella produzione è la Cina, con il 70% nel mercato globale: sei volte di più degli Usa, ovviamente interessati a colmare il divario. Quanto a potenziale in giacimenti, si stima che la Cina possieda il 44% del totale mondiale, Brasile 21%, Russia 10%, Vietnam 22% Groenlandia 2% . Queste ultime non da oggi e non a caso corteggiate da Washington. Pechino, dal canto suo, tende a separare le iniziative acquisitive dei suoi investimenti fuori confine da logiche di hard power egemonico. E finora questo le ha giovato, trovando riscontro in chi, viste le aperture di mercato offerte dalla concorrenza multipolare, teme abbracci troppo forti dal sapore neocoloniale.
Sul conto dell’Ucraina si stima un valore di 15 mld di dollari annui. Perciò qualcosa non torna nei 500 mld di cui, almeno fino venerdì, si parlava come dote chiesta dagli Usa: calcoli alla mano, 150 anni di estrazione più tempi e costi per mettere su la filiera. Altra cosa se si tratta di minerali critici, come titanio, litio e grafite. Il Servizio geologico ucraino ne vanta cifre record entro il perimetro europeo, anche se le stime contrastano con quelle degli istituti non governativi. Ammettendo che siano veridiche e considerando un mero equivoco lessicale tra terre rare e minerali critici, resta che larga parte dei siti estrattivi ricadrebbe nelle aree occupate dalla Russia.
C’è dell’altro. L’autunno scorso è stato Zelensky a lanciare l’ipotesi dello scambio: forse una lusinga per ingolosire Trump e convincerlo a sostenere la guerra sino al recupero dei territori oggetto della promessa. Eppure, scontata la confusione terminologica, è stato Trump stesso a fissare una cifra così alta. Potrebbe trattarsi di una leva sull’Europa: minacciare di accaparrarsi tutto, così da ottenere dai gregari la rinuncia agli ostruzionismi e l’arrendevolezza alle pretese trumpiane in tema di importazioni statunitensi (già sotto il grimaldello dei dazi) e spese militari (beninteso, da destinare al made in Usa). L’altra ipotesi è che Trump abbia assecondato la lusinga alzando la posta, per ottenere, in caso di rifiuto, l’opportunità di tirare le reti e salpare via da un mare che ormai ha dato il possibile per Washington. E così interrompere gli esborsi senza gli imbarazzi che avrebbero frenato la precedente amministrazione. Trump infatti non perde occasione per ricordare che dal 2022 al 2024 non era lui l’inquilino della Casa Bianca che incitava Kiev… sebbene venerdì gli sia sfuggito il vanto dei javelin forniti dal 2016 per il riarmo ucraino.
In quest’intreccio di ipotesi, equivoci e pressioni sulle “terre rare”, vi sono spunti per tradurre la sceneggiata andata in onda dallo Studio ovale.
A Washington Zelensky è andato con il suo schema di accordo sulle “terre”. Il problema non è stato sulla cifra, ma sull’oggetto dello scambio. Egli ha chiesto la garanzia di una presenza militare in Ucraina, respinta dalla Russia che ha iniziato la guerra proprio per tenere lontana la Nato a sud. Insomma, “terre rare” come provvigione promessa agli Usa quali agenti di Kiev. Trump e i suoi sono stati fin troppo pronti alla risposta, articolata chiarendo le gerarchie. Intanto, “terre rare” come rimborso per quanto già dato. Tolti via i tappeti rossi, Zelensky – dice Trump – farebbe bene a dismettere l’arroganza ingiustificata con cui detta l’agenda bellica altrui, non agitando i pericoli corsi persino dagli americani oltre oceano. Invece farebbe bene a cercare di salvare il salvabile grazie agli Usa, se tiene alla gioventù che sta decimando invano. La logica polemica si fonda su un dato noto agli addetti ai lavori, i quali sanno che una guerra finisce o per esaurimento (da cui la resa incondizionata) o per scelta razionale (con cui cercare di salvare l’osso del collo). Secondo Trump, si scelga pure: con gli Usa si ha la prima, senza gli Usa la seconda. Con un colpo solo, Washington può chiudere i rubinetti, fingere di essere da sempre soggetto “terzo” e così estromettere Kiev ed europei che ostano al riavvicinamento con Mosca (sperato in funzione anticinese).
Andando da Trump, Zelensky conosceva già la propria debolezza contrattuale: le precedenti dichiarazioni del Tycoon sul suo conto erano state già chiare. Per giunta, andare a parlare con il negoziatore dicendo che trattare con Putin è impossibile parrebbe un altro eccesso di ingenuità. Quale che sia l’atteggiamento con cui si è esposto al “fuoco amico”, l’analisi fattuale riconosce che l’occasione potrà almeno fornirgli una via d’uscita al cospetto delle frange più oltranziste (e pericolose) dell’establishment ucraino, addebitando a Trump la responsabilità di un tracollo. Trovando il Tycoon disponibile a pagare lo stigma dell’inaffidabilità agli occhi di chi ancora volesse entrare nel club dei protetti Usa. Il nuovo corso, infatti, non prevede campagne acquisti per altri accolli. Soprattutto, dopo l’eclatante esperienza di Saddam Hussein (dall’alleanza anti-iraniana alla forca) non è più un tabù il detto di Kissinger, per cui essere nemici degli Usa è un problema, esserne alleati è un pericolo. I risvolti ucraini traducono: con gli antagonisti si tratta, con i subalterni no.
In attesa di aggiornarsi sul registro in tema di “guerra a oltranza”, a rimedio delle divisioni interne, Bruxelles elegge il britannico Starmer a nuovo tutore esterno. E dalle stanze di Bruxelles già è uscito un protocollo di intesa con Kiev per lo sfruttamento dei minerali critici. Per non vanificarlo, serve sedersi al tavolo con Mosca e Washington. Ma è difficile motivare l’invito: a trattare la fine di un conflitto si siedono quelli che lo combattono e i mediatori. E l’euroatlantismo finora ha simultaneamente negato di essere cobelligerante e messo il negoziato all’indice delle parole proibite.
Dal canto suo il Cremlino vede soddisfatta la richiesta, che da sempre avanza, di trattare solo con la Casa Bianca: come si conviene tra i reali protagonisti di una guerra, dalle premesse alla conclusione. Le “terre rare”, a cavallo tra l’esca e l’equivoco, possono avere funzionato come ennesimo acceleratore.
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense