Quando agli inizi del Settecento le città iblee rifiorivano dalle macerie, gli spazi urbani si dilatavano verso un nuovo sogno, quello della rinascita sociale basata sulla solidarietà e la condivisione. Le città risorgevano come luoghi di aggregazione e confronto, come spazi utili alla sicurezza dei beni, della salute e delle famiglie. Le organizzazioni sociali erano basate sulle corporazioni e le confraternite; farne parte era indispensabile per chiunque volesse contribuire al riassetto del sistema produttivo e alla riorganizzazione politica, civile e religiosa. Persino nei piccoli centri furono delineate ampie piazze, chiese imponenti, palazzi monumentali le cui cortine murarie festose, addobbate con putti e mascheroni, si elevarono un po’ per volta.

L’Ancien Regimeera ancora in piedi ma la rinascita del territorio imponeva nuovi equilibri, nuove intese. Le fortificazioni non furono più riparate per consentire ai centri abitati di proiettarsi fuori dai confini perimetrali antichi e abbandonare i sistemi di controllo in entrata e in uscita. Le feste, le tradizioni, le usanze, ridiedero vita ai luoghi che avevano conosciuto la morte e le maschere apotropaiche, nei conci di chiave e nelle mensole, nei cornicioni e nei cantonali, secondo un uso risalente all’età greca, “allontanavano” il male. La personificazione del terremoto e dei nemici della religione diventava figura grottesca condannata a reggere i pesi delle strutture, sottoposta alla gravità dei massi delle imponenti fabbriche. I demoni con le loro smorfie di dolore rimanevano così fuori dalle case e dalle chiese, nei cui interni invece la bellezza soave veniva tessuta in figurazioni e decori sublimi. Così si è continuato fino al secondo dopoguerra, poi le città hanno smarrito l’identità e la memoria; nei casi più gravi hanno perduto persino i residenti con tutte le conseguenze che è facile immaginare. Oggi attraversiamo il luogo urbano col sentimento di chi sa di non farne parte e ci confondiamo, tristemente, dentro i flussi caotici di chi cerca solo il luogo giusto per un selfie o uno stuzzichino estemporaneo. Le città dei volti, le città delle persone, erano ben altro: se da un canto i cittadini attaccavano le maschere intagliate alle pareti delle fabbriche, dall’altro facevano in modo che i propri volti rimanessero nudi e puliti, in bella evidenza, per essere parte del grande mosaico cittadino. Le comunità compivano ogni azione affinché il residente si sentisse parte indispensabile del luogo abitato, entità strutturale e sociale in cui ognuno era riconoscibile per il suo volto, la sua espressione, la sua storia, le sue qualità. Spesso non erano i cognomi (noti solo all’anagrafe) a identificare le persone, ma il mestiere, una caratteristica fisica, un elemento comportamentale. Ognuno era identificabile e rappresentava un essere unico, insostituibile, inimitabile. Erano volti autentici quelli che popolavano le città, ritratti veri di creature che sapevano piangere e ridere, soffrire e divertirsi.

Nell’età dei palazzi condominiali è finito tutto. Ognuno chiude la porta di casa e lascia fuori ogni questione. Le relazioni sono tutte effimere: col telefonino e i social, con internet e l’informazione fake, con la tv dei salotti, del gossip e delle offese gratuite. Sì, dentro ogni casa c’è il teatro dell’assurdo, nel mentre le strade e le piazze delle città vere si sono irrimediabilmente svuotate perdendo persino le attività commerciali e artigianali che ne rendevano vivi i percorsi. Abbiamo strappato le maschere alle figure barocche, le abbiamo indossate con leggerezza e, convinti di esserci coperti e camuffati per bene, ci anneghiamo nei centri commerciali per avere accesso alle mangiatoie, alla spesa sprecona, al superfluo, a ciò che è inutile e spesso dannoso. È davvero triste questo tempo in cui non capiamo più qual è la differenza tra ciò che è finto e ciò che è vero, tra la maschera e il volto, tra ciò che serve a decorare un muro e la nostra presenza vitale.  L’Umanità nuova, perdendo l’identità dei singoli e quella della collettività, si è distratta a tal punto da non comprendere più cosa succede intorno alle persone. Capita spesso di vedere per strada qualcuno in stato di bisogno e passiamo indifferenti. Spesso anche gli incidenti veri o il ferito abbandonato sul marciapiede ci lasciano impassibili. Siamo diventati irrimediabilmente pezzi grotteschi di una scenografia davanti alla quale tutto ciò che accade ci sembra parte di un film, di una finzione che ci addormenta.

(Nella foto Palazzo Impellizzeri, Via Maestranza – Siracusa)

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