Non ho avuto modo di conoscerlo personalmente. Quando il 26 gennaio  1979 i sicari di cosa nostra eseguirono a Palermo l’inappellabile sentenza di morte in una Sicilia e in un’Italia che si affannava a girarsi dall’altra parte e a negare con ostinata tenacia la stessa sola esistenza della mafia – che pure era lì, sotto gli occhi di chiunque volesse effettivamente “vedere” – muovevo i miei primi passi nel mondo del giornalismo. Lo facevo lungo delle strade  che, allora, erano quelle attraverso le quali si iniziava a prendere confidenza con questo affascinante mestiere (che a me piace definire professione).

Ma Mario Francese, il suo lavoro, le sue inchieste, il suo modo stesso di essere e di vivere, ho imparato col tempo a conoscerlo, studiarlo, soprattutto apprezzarlo. La pacata determinazione con la quale, da autentico cronista, seguiva una pista, non arretrava davanti alle minacce, raccontava senza ambiguità una realtà difficilissima come quella della Palermo di quegli anni, sono un imprinting difficilmente replicabile.

Da diversi anni Siracusa ricorda Mario Francese in occasione dell’anniversario dell’uccisione. Accade anche nell’alba del secondo decennio di questo nuovo millennio. Un ricordo che, in maniera significativa, si intreccia con la ricorrenza, appena due giorni prima, nella quale i giornalisti celebriamo il patrono San Francesco di Sales. Mi piace pensare che nulla accade per per caso. Mi piace pensare a Mario Francese come a un “patrono” laico del nostro lavoro che richiede  scrupolo, impegno, passione ma anche capacità di attraversare i sentieri terreni della vita con un sorriso accennato sul volto. Come quello che aveva Mario Francese quando, lasciando la sera la redazione, salutava tutti col suo “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado!”

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