Da circa tre mesi, a causa dell’emergenza coronavirus, nei nostri territori abbiamo cambiato stili di vita. Dalla fine dello scorso mese di febbraio, progressivamente ci siamo abituati a isolamenti e privazioni sociali. 

Per salvaguardare la nostra salute, nelle città abbiamo vissuto uno strano “blocco” generale, certamente inedito per i settantaquattro anni della storia della Repubblica. Nel complesso, è stata responsabile l’adesione dei cittadini ai numerosi allarmi di volta in volta diffusi dalle Istituzioni nazionali e regionali.
Diciamo pure che siamo stati “schiacciati” dal pericolo unico che ci ha accartocciati in un inedito pensiero unico a sostegno dell’isolamento dei nostri corpi e delle loro naturali relazioni sociali.
Per il bene del Paese, rassegnati alla compressione delle libertà individuali, giorno dopo giorno, ci siamo isolati l’uno dall’altro evitando strette di mano, abbracci. In concomitanza con surreali “arresti domiciliari”, abbiamo accantonato pure i saluti, emarginando gli incontri sospettando che il prossimo costituisse pericolo reale per la vita di ciascuno!
Adesso, per fortuna, pare che progressivamente ne stiamo venendo fuori. Ma avvertiamo la difficoltà di liberarci dal “terrore del prossimo”, tuttora considerato potenzialmente pericoloso. Sul versante psichico, ovunque ci portiamo dietro una distorta mentalità acquisita nel corso dei recenti tre mesi di isolamenti.
Una nuova mentalità che vede un nemico onnipresente, che per le strade s’incarna in un untore-passeggiatore da scansare ad ogni costo, pure nei luoghi di culto. Ma presto pure nelle spiagge, nei bar, nei mezzi pubblici.
Tra app e microchip, tra nastri e segnaletica varia, tra mascherine e guanti, il distanziamento del prossimo continuerà a rendere invivibile o fastidiosa la nostra vita, così diversa da come l’abbiamo impostata nel corso dei decenni trascorsi? Distanza di un metro di qua, di cinque metri di là (a mare, ad esempio, tra un ombrellone e l’altro), i volti continueranno a non avvicinarsi, addirittura ad allontanarsi?
La nostra visione della vita civile e religiosa è stata sempre aperta alla socialità, all’incontro, alla partecipazione. Ci siamo sinora educati alla costruzione e al mantenimento di tutto ciò che è umano e sociale, negli ambienti di lavoro, nella scuola, nella politica, nelle amicizie, negli affetti.
Dovremo allora tornare a vedere il prossimo come l’amico. Non dico di arrivare ad amarlo (come dovremmo da coerenti cristiani), ma almeno torniamo a considerarlo un buon compagno, sempre vicino nel difficile ma comune cammino di vita. Oh no?

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