Faccia a faccia con la giornalista e scrittrice Romina Gobbo

Il nodo della disinformazione: “Le fake news? Non sono semplici errori, spesso sono volute”.

 Si è parlato più alla “pancia” che alla testa delle persone, magari indugiando di più sul tasto dell’emotività a scapito dell’approfondimento. Non sono soltanto i “numeri” – come per altro evidenziato già la scorsa settimana su queste stesse colonne  a proposito dell’affondo dell’Accademia Nazionale dei Linei su Istituto Superiore di Sanità e Protezione civile in relazione ai dati forniti sulla pandemia giudicati “estremamente scarsi” – a “raccontare”, in maniera non sempre adeguata, questi ultimi mesi segnati dall’emergenza coronavirus. Anche le parole, le tante parole impiegate – scritte, lette, ascoltate – in tutto questo periodo meritano, adesso che siamo all’alba della fase 3, di essere riviste e “rilette”.

E delle parole usate in questo periodo se ne è occupata di recente Romina Gobbo, giornalista professionista, studiosa delle problematiche del mondo arabo e islamico, collaboratrice di Avvenire, Famiglia Cristiana, Credere, Jesus, su tematiche quali i diritti umani, dei minori, la parità di genere, l’Islam, la disabilità, l’ambiente. Inviata più volte in aree di crisi, soprattutto Medio Oriente (Libano, Siria, Egitto, Afghanistan, Palestina, Israele, Giordania…) e Africa Sub-Sahariana (Sud Sudan, Camerun, Zambia, Gambia, Senegal, Etiopia…), è anche autrice di diversi volumi. Lo scorso mese  ha pubblicato “Ne uccide più la lingua che il covid. La guerra delle parole”  (Amazon, 2020)

  • Che racconto è, quello della pandemia, che il sistema dell’informazione più strutturato ha fatto in questi mesi e sta continuando a fare ancora oggi?

«Un racconto, a mio avviso, episodico, a spot, che mira più alla pancia che all’approfondimento, il che rischia di andare a discapito della comprensione. Abbiamo avuto un momento iniziale, durante il quale si è attinto a piene mani al linguaggio bellico, con un proliferare di “siamo in guerra”, “assedi”, “trincee”, “nemico che avanza”, “nemico da combattere”, “virus killer”… Nel frattempo si scopriva l’eroismo di medici ed infermieri, che si sacrificano per salvare i malati di Covid. Come se prima invece facessero dell’altro. Poi, ci sono stati tre, quattro giorni, dedicati alle ricercatrici che hanno isolato il virus. E qui, fiumi di retorica. Si scopre solo allora che anche le donne hanno delle capacità, e le hanno addirittura in ambito scientifico. Il team di ricercatori, in realtà comprende anche due uomini, ma questi per i media non esistono. Le donne, però, sono “angeli”; il richiamo al focolare suscita l’intervento di qualche femminista vecchio stampo. Poi, siccome sono originarie del sud, sono considerate la rivincita del Meridione; infine, siccome risultano essere sottopagate, l’indignazione va alle stelle. Ovvio che i nostri cervelli fuggono all’estero, qui non li valorizziamo. Trascorsi questi tre, quattro, giorni, dimenticate. Perché nel frattempo è stata liberata Silvia Romano. Per una settimana più o meno, si è messo in stand by il virus, e si è parlato dell’abito con cui la ragazza è scesa dall’aereo. L’impressione mia è che troppe news significano niente news. E, soprattutto, si finisce con il distogliere l’attenzione del lettore dal vero obiettivo, che in questo caso sarebbe dovuto essere fare “informazione di servizio”, cioè ti spiego che devi stare a casa, perché, che devi indossare la mascherina, quali sono i rischi dell’assembramento, e così via».

  • Nel suo ultimo libro analizza la scelta di utilizzare il linguaggio bellico per “raccontare” la pandemia. “Semplice” sciatteria di un giornalismo ormai inadeguato o ricerca consapevole di alimentare il flusso di paura ed angoscia collettiva che, in specie sui social, sembra una strategia vincente?

«Il libro analizza, ma volutamente non dà risposte, ciascuno è libero di trarre le proprie conclusioni. Tuttavia, l’idea di alzare il livello di tensione, a me sembra ci fosse tutta. Che poi fosse necessario perché bisognava far digerire alla gente delle restrizioni mai viste prima, ci sta anche questo. Poi c’è da dire che da sempre nella storia le malattie infettive sono il “nemico da combattere”, spesso vengono portate dagli eserciti, quindi arrivano “da fuori”, sono “altro da noi”, e si propagano velocemente tra i soldati a causa delle condizioni di promiscuità, mancanza di igiene, malnutrizione. In ogni caso, quando il giornalista usa una parola piuttosto che un’altra, io ho ancora la speranza che non stia assecondando l’emozione del momento, ma che abbia effettuato una scelta che gli consente di argomentare con una certa cognizione di causa. I social, invece, sono un fenomeno che va un po’ per conto proprio. Perché lì non c’è una mediazione giornalistica. Ognuno può scrivere quello che gli sovviene, senza controllo alcuno. Per cui chi era più preoccupato, probabilmente si è espresso in modi che finivano con l’alimentare la paura, chi, invece, prendeva la malattia sottotono, ha cercato di minimizzarla, se non di fomentare le varie teorie complottiste».

  • In quale modo il “nuovo” linguaggio dei social media sta influendo su quello “vecchio” del giornalismo?

«Sta influendo nel senso che i social non si possono più evitare, se non altro perché siamo già alla seconda generazione di nativi digitali, e con loro devi parlare lo stesso linguaggio. E poi dal punto di vista della tempistica, i social arrivano sempre prima dei media tradizionali. Non credo ci sia un meglio o un peggio. Semplicemente, le società si evolvono, compaiono nuovi strumenti di comunicazione, il linguaggio cambia, si creano neologismi, termini stranieri entrano nel nostro uso corrente. È fuor di dubbio che oggi il lavoro del giornalista sia cambiato: si è passati da un mestiere artigianale, di strada, ad uno che definirei da “colletto bianco”, si trascorre, cioè, la giornata davanti allo schermo di un pc, attingendo al materiale d’agenzia, consultando documenti in rete e aggiungendo qualche telefonata o qualche intervista via mail. Personalmente, pur essendo piuttosto “social”, mi sento affettivamente legata alla vecchia modalità, ma sono consapevole che potrei essere bollata come démodé».

  • Disinformazione e fake news, mescolando spesso “pezzi” di verità o scenari verosimili, sono due grossi scogli che mettono a serio rischio la tenuta della giusta rotta di chiunque navighi nel “mare” di informazioni oggi  Come fare per evitare di finirci sopra? Servono le diverse task force anti-bufala varate negli ultimi mesi? Le attività di fact checking sono giornalismo?

«Intanto, va detto che le fake news sono sempre esistite. Mi viene in mente la vicenda dei Protocolli dei Savi di Sion, un documento che, nonostante fin da subito sia stato classificato come un falso, ogni tanto ritorna in auge. Ma anche le presunte armi di distruzione di massa di cui doveva essere in possesso Saddam Hussein, che costituirono le ragioni della guerra all’Iraq, ma che non furono mai rinvenute. Oggi che cosa è cambiato? Che con i social il problema si è amplificato perché una notizia o un video – veri o falsi che siano – in pochi secondi raggiungono milioni di persone. Chiunque li riceva, spesso li ricondivide senza appurarne il contenuto; è quella che annoveriamo come disinformazione involontaria. Tra le bufale più fantasiose del periodo Covid, troviamo il suggerimento di “bere alcol o varechina per difendersi dal virus”, la pandemia “complotto delle élite per frenare la crescita della popolazione”, o “per creare vaccini da rivendere a caro prezzo”. Russia e Cina è stato appurato che hanno attuato volutamente campagne di disinformazione sul Covid-19, con l’obiettivo, tra gli altri, di esacerbare la polarizzazione sociale. “La falsa informazione – ha dichiarato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen – può costare la vita”. In effetti, il Belgio ha registrato un incremento del 15% di incidenti legati all’ingestione di varechina. L’Europa già nel 2018 aveva lanciato un Piano d’azione contro la disinformazione, il Covid ha dimostrato che bisogna intensificarlo.

Le fake non sono semplici errori, spesso sono volute, veicolano un pensiero e finiscono con il descrivere una realtà. Senza contare quando sono create ad hoc per fomentare l’odio. Gettare discredito sugli avversari politici è diventato lo sport nazionale. Oppure servono a montare casi dal nulla. Penso alla questione della “messa in piega” della collega Giovanna Botteri. Com’è cominciata? Da dove è partita? Non si sa, ma tanta gente ha ritenuto di dover intervenire nei social, argomentando pro o contro a qualcosa che non avrebbe meritato nulla di più di un “chi se ne importa”. A me interessa sapere che cosa succede in Cina, punto. Infine, la tastiera rende tutti leoni. Ci si scatena, tanto mi sento protetto dall’anonimato che la rete permette.

Sulla task force anti bufala, mi viene da dire aspettiamo di vedere qualche risultato. Personalmente, credo che continuare a creare comitati su comitati non serva a nulla; Garante della Privacy, Ordine e Sindacato Giornalisti sono sufficienti, diamo loro strumenti per sanzionare. Le attività di fack checking all’interno delle testate sono per me essenziali, perché oggi a volte – proprio perché c’è un sistema ben strutturato di costruzione delle bufale – il controllo delle fonti da parte del singolo giornalista può non essere sufficiente. Ogni testata dovrebbe avere un ufficio apposito, che peraltro significherebbe anche creare lavoro. Se pensiamo che il Der Spiegel ce l’ha dal 1950 (il giornale era nato tre anni prima), con 70 giornalisti specializzati nei vari settori, direi che l’Italia è un pochino in ritardo».

aldomantineo@gmail.com

  • Tra i tanti termini con i quali abbiamo imparato a fare i conti in questo periodo c’è “infodemia”: ma davvero rischiamo di annegare in un mare di informazione o, piuttosto, siamo ormai diventati poco capaci di saper distinguere ciò che è informazione da ciò che, pur sembrandolo, non lo è? E se così fosse, il sistema dell’informazione mainstream che ruolo avrebbe (o non avrebbe) avuto?

«Nel periodo Covid, in effetti, si è molto usato il termine infodemia, con la variante pandemia mediatica. L’Italia è stata tra i Paesi più colpiti dall’infodemia perché è stata tra i più colpiti dal virus e la disinformazione va di pari passo con la paura. Commissione Europea, Oms, G7, Nato, Onu stanno costruendo una campagna di controinformazione ad hoc sul Covid-19 per smontare le bufale ancora in circolazione.

Un ruolo essenziale è quello delle piattaforme online. Molte di loro nell’ottobre 2018 hanno firmato un codice di condotta volontario (Facebook, Google, Twitter, Mozilla, Microsoft), grazie al quale sono stati rimossi 3,4 milioni di account sospetti e 15mila video YouTube. La Commissione però chiede alle piattaforme un rafforzamento dell’azione di contrasto, con rapporti mensili. Altrettanto importante è diffondere l’alfabetizzazione digitale, cioè la capacità di leggere in modo critico le informazioni in rete, soprattutto tra le persone più vulnerabili, come bambini e giovani. Anche il lettore dev’essere partecipe di questo processo per la decostruzione delle fake news, attraverso l’educazione al senso critico».

  • Durante tutto il periodo del lockdown ci siamo ripetuti, come un mantra, “andrà tutto bene” e “nulla sarà come prima”: che sistema dell’informazione avremo quando la pandemia sarà definitivamente alle nostre spalle?

«Credo che il tipo di informazione dei prossimi anni dipenderà molto dal lettore, perché è lui che sceglie quale giornale comprare e quale invece scartare, o su quale canale televisivo sintonizzarsi. Ai giornalisti piacciono molto le carte deontologiche – ne abbiamo per tutelare  chiunque -, ma poi, alla prova dei fatti, chi ha la forza di opporsi al proprio editore? Anche i giornalisti – come si dice – tengono famiglia. Certo che finché non c’è alcuna levata di scudi massiccia sul fatto che sia stato demandato alla D’Urso “l’approfondimento” sul Covid, abbiamo un problema».

 

Aldo Mantineo, giornalista e scrittore ha lanciato l’instant-bookFakecraziaL’informazione e le sfide del coronavirus” del giornalista Aldo Mantineo, edito in formato ebook da Media&Books. Il libro sarà gratuitamente disponibile fino ad oggi 15 giugno, per il download (da lunedì 4 maggio) da GooglePlay oppure è scaricabile (lecitamente) da Telegram (t.me/media_books) o si può richiedere all’editore: mediabooks.it@gmail.com

 

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