XVIII Giornata mondiale della sindrome di Down

SECONDA PARTE – Sessione pomeridiana

Siracusa, per un giorno, diventa capitale della scienza ospitando prestigiosi esponenti della task force nazionale della sindrome di Down.

È Il professore emerito della Università “Federico II” di Napoli e coordinatore della task force nazionale sulla sindrome di Down Lucio Nitsch con il suo lavoro dal titolo: “La ricerca scientifica sulla sindrome di Down: dalla lotta agli stereotipi alla sperimentazione di nuove terapie”, ad aprire il nutrito programma di relazioni del pomeriggio presso l’Urban center di Siracusa, luogo nel quale l’Aipd –associazione italiana persone Down- sezione di Siracusa, il st ha celebrato la XVIII giornata mondiale sulla sindrome di Down.

Nitsch inizia con le tre parole che sono state presentate ai bambini delle scuole durante la celebrazione antimeridiana e cioè equità, uguaglianza e giustizia. “Vorrei iniziare parlando di pace-ha esordito-  perché se ne parla sempre troppo poco. Chi soffre quando c’è una guerra sono soprattutto i bambini. Pensate quanti bambini con sindrome di Down ci sono che stanno soffrendo in questo momento”.  Il professore Nitsch ha mostrato con una slide, che la sindrome di Down esisteva anche 2600 anni fa, facendo vedere il cariotipo –insieme del corredo cromosomico di qualunque persona, ndr-, di una bambina sepolta. “Alcuni stereotipi sulla sindrome di Down sono molto noti –afferma- ma come si combattono? Occorre rompere le catene dell’ignoranza, parlando, raccontando storie di resilienza”. Il professore ci informa che “Le persone con sindrome di Down fino al 1960, non raggiungevano nemmeno i 10 anni. Oggi la vita si è allungata anche per il successo di alcune discipline come la cardiochirurgia, ma oltre a ciò, ci sono altre discipline che afferiscono al comportamento e anche lì si sono fatti grandi passi in avanti”. Potremmo anche dire che le persone con sindrome di Down hanno una maggiore possibilità di contrarre alcune malattie e meno possibilità di averne altre.

Infatti, il coordinatore della task force nazionale dichiara che “Le persone con sindrome di Down sono meno esposte ai tumori solidi ma più esposte alla demenza, alla leucemia, alla cataratta, alle apnee notturne, etc… Come possiamo, dunque, migliorare la condizione delle persone con sindrome di Down e realizzare il diritto alla cura? Occorre prendere in carico le persone con sindrome di Down –suggerisce Nitsch-, cioè monitorare le loro condizioni di salute nel tempo, partendo proprio da tutte le eventuali malattie che potrebbero svilupparsi nel corso della loro vita”. Il Ministero della Sanità sta redigendo un registro nazionale sulla sindrome di Down così da sapere quante strutture ci sono e quali sono quelle che prendono in carico i soggetti con tale sindrome. La task force sta collaborando perché ciò si realizzi. “La task force –conclude il professore Nitsch– sta redigendo le linee guida per fare in modo che la presa in carico delle persone con sindrome di Down sia normata, insieme a fare progressi nella ricerca scientifica di base”.

L’evento è continuato con il prof. Serafino Buono, direttore UOC –unità operativa complessa- di Psicologia IRCCS –istituto di ricovero e cura a carattere scientifico-  Oasi Maria SS. ONLUS che ci ha illustrato quanto attiene agli “Aspetti cognitivi ed emotivi nella sindrome di Down”. Il prof Buono parte da tre punti nodali e cioè: uno è l’inquadramento iniziale, poi c’è l’importanza del contesto e infine, il potenziamento cognitivo. “Uno dei temi che emerge –inizia a dire- è la diversità del genere umano, la cosiddetta neurodiversità. Ogni essere umano si esprime in una modalità specifica. Si punta molto sull’autodeterminazione, si parla di soggetti titolari di diritti e non più di persone invisibili”. Buono esprime anche l’importanza del contesto che facilita l’inclusione sociale delle persone con disabilità. “La carta dei diritti e in particolare l’art.1 (La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ndr) ci aiuta a considerare il rispetto della dignità delle persone con sindrome di Down”. Entriamo adesso nell’aspetto degli stereotipi: se è vero che non bisogna considerare i soggetti con sindrome di Down tutti allo stesso modo, occorre anche considerare che possano esserci delle patologie associate, cioè in comorbilità, tipiche che li riguardano. “Un aspetto fondamentale è il linguaggio –espone il prof Buono-. I bambini normotipici con 100 parole strutturano una frase, i bambini con la sindrome di Down la strutturano con 200 parole. All’età di 3-6 anni la frase è incompleta, nell’adolescenza si stabilizza. Nella sindrome di Down non è compromesso solo il linguaggio ma la comunicazione”. In base al QI –quoziente intellettivo-, abbiamo una linea (si proietta una slide, ndr) che ci rappresenta la media e degli intervalli al di sotto e al di sopra. “In merito al QI, sotto la media ci sono punti di forza e punti di debolezza. Verbalizzazione e memoria di lavoro sono deficit –precisa Buono-. Le abilità visuopercettive sono punti di forza dei bambini con sindrome di Down. La memoria di lavoro è la capacità che la mente ha di manipolare i dati nella memoria a breve termine e nella sindrome di Down è un deficit”. In riferimento al linguaggio si è considerato sia quello espressivo (parlare), sia quello ricettivo (comprensione dei messaggi). Il professore Buono mette in evidenza che “Non conta misurare quante parole sanno dire perché capiscono di più di quello che sanno dire. Occorre spostare il pensiero cognitivo al pensiero astratto. Il modello che utilizziamo per interpretare la disabilità intellettiva nella sindrome di Down è il modello ICF – Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, ndr-. Si parte da ciò che abbiamo nella persona con sindrome di Down e si costruisce il percorso. Se chiudo in casa una persona con sindrome di Down faccio perdere tutte le abilità acquisite nel corso dello sviluppo. Il QI dei ragazzi con sindrome di Down –spiega il professore-  è maggiore dove si frequentano scuole normali anziché speciali”. Buono poi cita Vygotskij, lo psicologo russo che studiò i concetti e i metodi della teoria socio-culturale. “Bisogna lavorare sulla zona di sviluppo prossimale –precisa il professore Buono– cioè quell’area al limite tra ciò che sanno fare da soli e ciò per cui hanno bisogno di aiuto. Ma poi occorre rinforzare ciò che facciamo perché non si deve perdere quanto acquisito. Una volta appresa una cosa si deve utilizzare nella vita quotidiana, si deve generalizzare (bridging) quanto acquisito. Impariamo a fare domande. Se vogliamo potenziare lo sviluppo cognitivo e farli passare dal concreto all’astratto, dobbiamo imparare a fare delle domande non chiuse (risposte si o no), ma che indaghino processi, conseguenze ad esempio: com’hai fatto? Perché? Occorre trovare le ragioni della sua risposta e delle sue azioni. Cosa fare dunque? Potenziamo il cognitivo –conclude- e le abilità adattive (socializzazione, abilità pratiche, etc…). Abilitazione del linguaggio e supporto alla crescita emotiva. Cosa dobbiamo ottenere? La salute, il benessere, perché il loro stare con gli altri sia benessere e supportare la qualità della vita”.

Successivamente è stata la volta di Marilena Recupero,  dirigente Psicologo IRCCS Oasi Maria SS. ONLUS, sul tema “Fattori psicosociali protettivi nei giovani con sindrome di Down”.

“Oggi le persone con sindrome di Down –rivela la Recupero– vanno incontro ad un allungamento della vita e dunque ad una probabile condizione di demenza. Ci sono diversi stadi nella manifestazione della demenza. All’inizio la persona dimentica dove posa gli oggetti, non comprende le istruzioni verbali, ad esempio chiede che vengano ripetute. Si irrita facilmente e si rifiuta a svolgere compiti in cui occorre uno sforzo fisico. Nello stato intermedio non distingue il pranzo dalla cena o non ricorda quando ha mangiato, ha sempre fame. In uno stato di frustrazione si arriva a dare calci o pugni al prossimo. Presenta stadi di incontinenza fecale non intenzionale. Nello stadio avanzato –continua la dottoressa- si ha riluttanza a sostenere pesi, incontinenza urinaria frequente, riluttanza a camminare, incapacità di rispondere alle persone e agli stimoli. Nello stadio terminale si ha la perdita della capacità verbale, si necessita di essere imboccati ogni pasto, e si ha la perdita della capacità della deambulazione”. Poi, la dottoressa Recupero cita lo psicologo Daniel Stern: “Tutti noi andiamo incontro a perdita neuronale, ma c’è una interazione reciproca tra fattori di tipo biologico e quelli di tipo ambientale, cioè quelli psicosociali protettivi e cioè: gli anni trascorsi a scuola, gli anni impiegati a lavorare e nelle attività ricreative. Dagli studi emerge che chi, tra le persone con sindrome di Down ha un grado di istruzione elevato, chi svolge un’attività lavorativa stimolante, chi ha un elevato grado di coinvolgimento nelle attività ricreative e ha trascorso meno anni in un istituto, presenta un minor numero di sintomi di demenza. All’interno della nostra struttura –ha ricordato- abbiamo preso due gruppi da 25 soggetti con sindrome di Down di cui 13 maschi e 12 femmine. Un gruppo ha la demenza e un gruppo non ce l’ha. Abbiamo somministrato ai caregiver (genitori o chi se ne prende cura, ndr) un questionario con 60 domande per vedere di confrontare i risultati con la letteratura e ciò che è venuto fuori è che l’esperienza lavorativa coinvolge meno dell’1 per cento dei soggetti analizzati. Infatti, su un campione di 120 persone con sindrome di Down seguite nella nostra struttura –ha concluso Recupero– da almeno 10 anni, sono pochissime unità quelle che lavorano. Occorre dunque prevenire lo sviluppo della demenza favorendo l’inclusione scolastica, promuovendo lo sviluppo cognitivo, soprattutto nel post scuola, andare oltre gli stereotipi, al fine di permettere l’inserimento lavorativo delle persone con sindrome di Down.

L’ultimo intervento è stato di Margherita Grasso, Ricercatrice junior, IRCCS Oasi Maria SS. ONLUS che ha presentato i risultati di una ricerca pubblicata di recente dal titolo: “Ruolo del TGF-beta1 nel declino cognitivo associato alla sindrome di Down.”

“La sindrome di Down –esordisce la ricercatrice- è la causa genetica più comune di disabilità intellettiva. Circa 1 bambino su 1000 nasce con questa sindrome. La maggiore incidenza della malattia di Alzheimer nelle persone con sindrome di Down è la presenza del gene APP cioè la proteina precursore della amiloide (una proteina insolubile, ndr) sul cromosoma 21. Di conseguenza si ha una sovraespressione di APP sul cromosoma 21 e un maggiore accumulo e deposizione di Aβ (A-beta amiloide) che è il peptide neurotossico (i peptidi sono i mattoncini che costruiscono le proteine, ndr) responsabile di una delle caratteristiche neuropatologiche tipica della malattia di Alzheimer”.

Cosa vuol dire tutto ciò? “Questo –continua la dottoressa- comporta che nei bambini con sindrome di Down a partire dai primi 10 anni di età, inizia a depositarsi a livello cerebrale sotto forma di  frammenti amiloidogenici, per poi trasformarsi in vere proprie placche che sono le caratteristiche neuropatologiche tipiche della malattia di Alzheimer  e tende ad accelerare dopo i 40 anni di età”.

La dottoressa Grasso illustra come la neuroinfiammazione sia un segno patologico precoce della sindrome di Down e della malattia di Alzheimer ma in particolare nella sindrome di Down,  si attivano a livello cerebrale astrociti e microglia (cellule cerebrali) che producono citochine (molecole proteiche definite anche “parole molecolari” nel senso che vengono prodotte da varie cellule e hanno la capacità di comunicare e indurre specifiche reazioni alle cellule che le hanno originate e a quelle vicine, ndr) ad azione proinfiammatorie come il TNF-α, queste ultime individuabili con biomarcatori. Gli aumentati livelli plasmatici di TNF-α sono correlati con il tasso di declino cognitivo. L’identificazione di biomarcatori ematici ci aiuta dunque ad individuarli.

“Lo studio osservazionale –ha detto la ricercatrice – condotto dal nostro istituto, grazie all’istituto Scienze neurologiche di Bologna, al San Raffaele di Roma e al professor Filippo Caraci e alla dottoressa Recupero, ha identificato nuovi biomarcatori e nuovi target farmacologici che ci consentono una diagnosi precoce del declino cognitivo nei soggetti con sindrome di Down”.

Con un semplice prelievo di sangue si può vedere l’alterazione del sangue periferico e dunque, l’identificazione di marcatori biologici potrebbe diventare essenziale per predire il grado e/o la progressione del declino cognitivo nella sindrome di Down.  Il TGF-β1 potrebbe essere uno di questi. Quale allora il rimedio? “La fluoxetina –ha concluso Grasso-, dotata di attività neuroprotettiva, potrebbe essere studiata in futuri studi clinici controllati per il trattamento del deficit cognitivo nella sindrome di Down.

 

  • Immagine in evidenza: da destra il prefetto di Siracusa Moscarella, Corsico,Buono, Nitsch, Dente, Recupero e Grasso.
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