Com’era nelle previsioni hanno prevalso i “Sì”, senza possibilità di dubbi interpretativi. Una vittoria del “populismo”? Azzardato e certamente superficiale liquidare con siffatto giudizio il pronunciamento di circa il 70 percento degli italiani che ha confermato la legge costituzionale che taglia il numero dei parlamentari da 945 a 600 (400 alla Camera e 200 al Senato). A meno che non si voglia definire “populista” anche il parlamento che aveva approvato questa riforma, addirittura in misura quasi unanime nella seconda votazione alla Camera (553 favorevoli su 567 votanti: il 97%).

D’altronde le ragioni contrapposte (che contenevano entrambe elementi fondati a sostegno dell’una  o dell’altra posizione) hanno avuto modo di confrontarsi ampiamente nel dibattito pubblico, e il fronte del No – che aveva vinto nel 2016 contro la complessa riforma Renzi-Boschi – non ha potuto contare stavolta sulla unanimità di pensiero a livello di dottrina giuridica, come evidenziato dalla presa di posizione inaspettata di costituzionalisti del calibro di Gustavo Zagrebelski, Valerio Onida e Gaetano Quagliarello.

Marco Fatuzzo

Adesso è importante proseguire sul cammino delle riforme. Il taglio dei parlamentari è un intervento circoscritto e settoriale che per funzionare ha bisogno di interventi ulteriori e dunque, proprio per questa ragione, può (e deve) mettere in moto un meccanismo di razionalizzazione del procedimento legislativo e un percorso di riforme conseguenti.

Tutti lamentiamo lo scollamento esistente tra cittadini ed istituzioni e la crisi della democrazia rappresentativa. Di fronte a questa realtà, chi intende la politica come esercizio di rappresentatività e competenza, deve cogliere l’opportunità – che si presenta dopo il referendum – del superamento della conservazione di uno status quo (che ha generato in sé il germe dell’anti-politica), cercando di perseguire una strada diversa per il cambiamento.

La diminuzione del numero dei parlamentari non è certamente la panacea di tutti i mali, ma la rappresentanza parlamentare ha bisogno di ritrovare qualità, il procedimento legislativo ha bisogno di essere razionalizzato, il legame fra rappresentati e rappresentanti ha bisogno di essere riannodato. E adesso si è almeno aperto uno spazio di opportunità per provarci.

Per il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli (che non aveva nascosto la sua posizione a favore del No), l’esito del referendum è «una manifestazione di sovranità popolare, una prova di democrazia sicuramente positiva», e la misura più urgente ora è «una nuova legge elettorale che restituisca sovranità ai cittadini e potere reale di selezione della classe parlamentare. E poi la modifica dei regolamenti parlamentari, soprattutto quello del Senato, per metterlo in condizione di poter funzionare anche in un numero così ridotto dei suoi componenti».

Dunque, chiuso il capitolo referendum si apre, con priorità, il cantiere e il dibattito sulla legge elettorale.  E sarà questo Parlamento (con senatori e deputati incerti sulla loro rielezione) che dovrà decidere su una questione così centrale per la nostra democrazia.  Una materia troppo seria per restare affidata alle segreterie di partiti, cioè di soggetti sempre più svuotati di partecipazione democratica, se non espressione di leadership personali.

E’ sul tappeto il destino della proposta della legge elettorale definita “germanicum”, a impianto proporzionale, che rientrerebbe negli accordi di maggioranza. Un patto ancora da definire nei particolari e che potrebbe saltare con la conseguenza di andare al voto per il nuovo parlamento con l’attuale legge Rosato che combina elementi di maggioritario e proporzionale.

Questione collegata è quella delle liste bloccate (che permangono dal “porcellum” del 2005) e della possibilità del ripristino delle preferenze – invocata da più parti – che restituirebbe ai cittadini il diritto costituzionale di scegliere in modo “diretto” i propri rappresentanti.

Altro tema urgente, al quale porre mano da parte del parlamento, è l’approvazione, finalmente, di una legge sui partiti, i quali, per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (come recita l’art 49 della Costituzione) hanno bisogno di una democraticità interna e di una trasparenza nella gestione delle risorse con bilanci pubblici e certificati.

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