Spetta alla comunità internazionale custodire la memoria della “primavera” del 1989. Ma spetta anche a ciascuno di noi fare memoria di quanto è accaduto, per orientarsi nell’oggi e capire più adeguatamente la nostra Europa.

Il 1989 me lo ricordo bene, forse perché avevo vent’anni. Era chiara la percezione che stesse accadendo qualcosa di straordinario e di unico, che avrebbe segnato per sempre la storia. Sul soglio pontificio sedeva san Giovanni Paolo II, il Papa “polacco”, mentre presidente degli Stati Uniti era l’ex attore Reagan, la Thatcher – la Lady di ferro – era a capo del governo inglese e Gorbaciov, il fautore della Glasnost (“Trasparenza”), era il presidente di quella che si chiamava ancora Urss: l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. In Polonia, il generale Jaruzelski presiedeva il Partito comunista che, grazie soprattutto all’azione di Solidarnosc guidata da Lech Walesa, mostrava i primi timidi segni di disponibilità al dialogo, forse per lungimiranza o forse semplicemente perché era ormai palese la fragilità dell’intero sistema. Con un incalzare stupefacente di eventi, a partire dal febbraio di quel 1989, come le tessere di un domino, tutti i governi comunisti della “cortina di ferro” vennero giù, uno dopo l’altro: prima la Polonia, poi via via l’Ungheria, la Repubblica Cecoslovacca (le due nazioni erano unite!), la Germania dell’Est, la Bulgaria, la Romania (dove si è recato recentemente papa Francesco e che pagò allora un tributo di sangue molto alto)… Poi fu la volta anche della Jugoslavia, che andò letteralmente in frantumi, con la terribile guerra civile che ne seguì. Nel 1990 toccò all’Albania, con la conseguente ondata di sbarchi in l’Italia. Nel 1991 arrivò anche l’indipendenza dall’Urss dei Paesi Baltici: Lituania, Lettonia ed Estonia.
Simbolo degli eventi del 1989 divenne la “caduta” del muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre di quell’anno. In quella notte straordinaria, sotto gli occhi impotenti dei militari comunisti, il muro si popolò progressivamente di giovani, anziani e bambini e, da luogo di morte e di divisione, si trasformò in luogo di festa, di commozione, di incontro. Chi non ricorda lo sguardo trasognato, quasi incredulo, dei tedeschi dell’Est che, facendosi coraggio, un po’ alla volta attraversavano il confine e si dirigevano, stupiti, a Berlino Ovest? Fino al giorno prima, chi avesse tentato di avvicinarsi per superare quel muro, che era munito di un complessissimo sistema di sorveglianza, sarebbe stato freddato sul posto senza pietà. Chi ha vissuto quegli anni ricorda il clima di tensione e di paura che caratterizzava l’Europa. Si viveva nell’angoscia di un conflitto nucleare tra le due superpotenze, che puntavano i loro missili con testate nucleari, sempre più potenti, le une contro le altre: l’Urss, da un lato, con il blocco sovietico dell’Est Europa, e gli Usa, con i Paesi Occidentali e la Nato, dall’altro. È del 1983 il film “The day after” (“Il giorno dopo”), un film drammatico e scioccante che prefigurava che cosa sarebbe potuto accadere “il giorno dopo” le esplosioni nucleari, qualora le due superpotenze avessero dato il via alla terza guerra mondiale. Due anni dopo uscì la canzone “Russians” (“I Russi”) di Sting, anch’essa testimonianza eloquente dell’isteria collettiva di quel tempo e del desiderio di una pacificazione tra i due schieramenti. Da quel 1989 l’Europa cambiò profondamente.

Cambiarono gli equilibri internazionali, con ricadute fortissime anche sulla politica delle singole nazioni, ad Est come ad Ovest, compresa l’Italia, con la frantumazione progressiva della Dc e del Pci. Non tutto, però, è stato un bene, come si è visto: nel giro di poco tempo emersero forti tendenze nazionalistiche e, dai Balcani ai Carpazi, scoppiarono sanguinose guerre locali. Nella primavera del 1989, però, anche un’altra parte del mondo era in fermento: la Cina. Nel mese di aprile, a seguito della morte di Hu Yaobang, il segretario generale del Partito comunista cinese e capo del governo, ebbero luogo delle timide espressioni di protesta contro il Partito, che crebbero via via e culminarono con le manifestazioni di migliaia di studenti a Pechino, in piazza Tienanmen. Gran parte del mondo occidentale, allora, pensò che la Cina, come tutto il blocco sovietico, fosse prossima ad un cambiamento radicale nel nome dei valori della libertà e della democrazia. Simbolo di quei giorni fu il “rivoltoso sconosciuto”: un ragazzo in camicia bianca che si pose dinanzi ad una fila di carri armati, fermandoli. Non si sa che fine abbia fatto il giovane: se sia libero o se sia in prigione o se sia stato giustiziato. Non si sa – e forse non si saprà mai – che cosa accadde realmente tra il 3 e 4 giugno 1989, quando il governo cinese decise di inviare l’esercito per liberare la piazza. Non si conosce il numero delle vittime: il governo cinese fino ad oggi ha sempre minimizzato ed ha cancellato ogni segno che ricordi gli eventi di piazza Tienanmen. Sta di fatto che la piazza fu ben presto vuotata e ripulita dagli effetti degli scontri tra studenti e forze armate. Sta di fatto che il partito comunista cinese – a differenza dei partiti comunisti dell’Europa dell’Est – è ancora saldamente al potere e la Cina è diventata, a trent’anni di distanza, una potenza militare ed economica di prima grandezza, che si sta imponendo, a tutti i livelli, sui vari settori dello scacchiere internazionale. Chi ha fatto un viaggio in Africa, dove la Cina ha messo radici molto profonde, si sarà certo reso conto di che cosa abbia realizzato e stia realizzando il Paese asiatico nel continente africano. Forse è sufficiente dare uno sguardo alle nostre città, in cui interi rioni sono popolati da comunità cinesi, che vivono e gestiscono significative attività imprenditoriali. In Cina, tuttavia, il progresso economico non è andato di pari passo con il rispetto dei diritti umani: le richieste di democrazia e di “trasparenza”, che gli studenti cinesi della primavera del 1989 reclamavano, sono ancora ampiamente disattese. Ora i cinesi sono molto più ricchi, certo, ma sono anche più controllati da un regime ferreo e onnipervasivo, con importanti ricadute anche sulla vita religiosa dei singoli cittadini (compresi i cattolici): oggi una nuova Tienanmen sembra davvero impossibile. Spetta alla comunità internazionale custodire la memoria della “primavera” del 1989 e pungolare il Colosso asiatico perché, accanto al progresso economico, promuova il rispetto della persona e dei suoi diritti. Ma spetta anche a ciascuno di noi fare memoria di quanto è accaduto, per orientarsi nell’oggi e capire più adeguatamente la nostra Europa.

(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto) – Riproponiamo oggi l’articolo pubblicato per i trenta anni dei fatti di Tienanmen.

E’ un caso quello che succede oggi a Hon Kong ? Nella immagine in evidenza la “protesta della luce”, la veglia di Hoper ricordare i giovani di Tienanmen per la quale i manifestanti hanno sfidato gli arresti messi in atto anche preventivamente. https://www.avvenire.it/mondo/pagine/l-anniversario-di-tienanmen-a-hong-kong-finisce-in-cella

 

 

 

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