Ho praticamente trascorso ventiquattro-trenta ore immerso in una sorta di “bolla azzurra” dove tutto è stato fatto e detto declinandolo alla luce dell’impresa di Wembley. Attaccato alla tv (più di quanto non mi venga rimproverato faccia di solito) non mi sono perso un solo commento, un solo frame dei caroselli festanti di auto, del tour dei neo campioni d’Europa sul bus scoperto, ho ascoltato e riascoltato sino a quasi mandarli a memoria i passi salienti degli interventi di Mattarella, Draghi, Mancini, Chiellini & co. Certo il dio palla ha nettamente sovrastato la dea pallina da tennis che pure un portentoso Berrettini – un Matteo da esportare senza esitazioni… – riesce a far schizzare in battuta a oltre 200 chilometri/orari (ma vuoi vedere che se alla Ferrari approfondissero meglio la questione potrebbero finalmente tornare a ottenere qualche buon risultato in pista?) conquistando interamente la scena. E questa esposizione mediatica a reti e social unificati ha anche rappresentato l’ideale terreno di coltura per tutta una serie di analisi, riflessioni, commenti, sparate e chi più ne ha più ne metta alle quali è stato difficilissimo andar dietro (ammesso che, naturalmente, si ritenesse che ne valesse la pena).
E allora: che dire (e perché dirlo) di più?
Naturalmente la mia attenzione oltre al gesto puramente sportivo e al valore della vittoria (che, a quanto pare, avrà ricadute positive economiche anche sullo stesso pil del Paese, non soltanto dunque per la tasca dei calciatori azzurri) è stata catturata – così come per milioni di italiani – da tutto ciò che c’è stato dopo che le manone di Donnarumma hanno detto no sul quinto e decisivo rigore a Saka. La delusione in campo scolpita sul volto dei calciatori di casa e quella sui visi (alcuni dipinti) dei circa sessantamila sugli spalti di Wembley (there is none covid, cit. Angela Chianello da Mondello, estate 2020), l’odioso sfilarsi dal collo la medaglia dei secondi classificati, l’antisportivo abbandono del prato verde e il precipitoso ripiegare negli spogliatoi a premiazione dei vincitori non ancora avvenuta, le bordate di fischi a coprire le note dell’inno nazionale italiano, hanno dato la stura a una ridda di commenti e a una condanna definitiva e inappellabile degli inglesi (atleti e tifosi). Comportamenti che da soli dicono tutto e che contraddicono quei motti che rimbalzano ovunque nel mondo, per altro rigorosamente in lingua anglosassone, come “respect” o “stop the racisme”. In questo caso, vista la piega presa dalla vicenda, certamente qualche ripetizione di buone maniere e galateo istituzionale ai sudditi di sua maestà non guasterebbe. A me piace pensare che, in fondo, il successo faticoso (e per questo ancora più intenso e bello) conquistato espugnando Londra sia pure la metafora della supremazia della Repubblica sulla monarchia: prima dell’Inghilterra avevamo avuto modo di “passare per le armi” altri due agguerriti eserciti di altrettante monarchie (ancorchè parlamentari): Spagna in semifinale e Belgio ai quarti. Anche con i cerotti, la nostra bella Repubblica Italiana (magari a volte un po’ arruffona), ha dimostrato di tenere la testa alta e sapersi fare rispettare.Adesso la cosa più importante è che non si disperda questo patrimonio di buon senso ritrovato in una calda e indimenticabile notte di inizio estate. Abbiamo, un po’ tutti, stigmatizzato i comportamenti antisportivi dei bianchi d’Inghilterra (c’è anche chi ha rispolverato un verso del teologo francese di fine settecento Jacques Benigne Bossuet e il suo riferimento alla perfida Albione) e, di pari passo, giustamente sottolineato il valore e l’equilibrio delle parole del tecnico della Spagna Luis Enrique che, dopo il ko degli iberici ai rigori con l’Italia, ha invitato a riflettere anche sul valore educativo (specie per i più piccoli) di una sconfitta. Ma ora la palla rotola nuovamente fra i nostri piedi, freschi di titolo continentale (e dunque ancor di più con gli occhi puntati addosso): con un campionato di Serie A – ma non soltanto quello – che sta per tornare (tra poco più di un mesetto) facciamo tesoro del tanto inchiostro e dei fiumi di parole (cit. Jalisse) spesi per “raccontare” quanto gli inglesi abbiano fallito davanti agli occhi dell’intera comunità continentale (e pure oltre) la prova del fair play. Insomma, se le notti magiche vissute da metà giugno in poi hanno avuto un senso (non soltanto sportivo) sta a tutti noi dimostrarlo: gli stadi e le zone adiacenti non possono essere più campi di battaglia, il colore della pelle dell’avversario che magari ci manda ko con un suo gol non può essere in alcuna maniera alibi per qualsivoglia scomposta reazione, il rispetto dei sostenitori della squadra avversaria non può considerarsi un optional. Ne saremo capaci o continueremo a vedere agevolmente la pagliuzza nell’occhio dell’altro ignorando la trave che ci acceca? Il tempo darà risposta.Intanto godiamoci questo magnifico successo figlio anche di quella resilienza italica che, nel mio personalissimo vocabolario, fa tanto rima con resistenza.
(*) Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…).