Storie che ti rimangono addosso come una seconda pelle, vicende alle quali – anche a distanza di oltre vent’anni – continui a guardare come se fosse un pezzo del tuo vissuto più intimo e che senti ancora come qualcosa di tuo. Non solo da un punto di vista professionale.  Per me la storia di Lele Scieri è una di queste. Impossibile non farne memoria oggi, a ventidue anni dalla sua oscura morte nella caserma “Gamerra” a Pisa.

Lele non lo conoscevo. Non l’ho conosciuto Lele anche se, come amo ripetere, Siracusa non è New York e in qualche modo in questa splendida città di provincia le nostre vite si intrecciano con quelle di tantissime altre: passioni sportive comuni e divisive; comitive; amicizie condivise con fratelli e sorelle maggiori o minori; e poi, man mano che si cresce, i colleghi di lavoro – magari prima compagni di scuola e protagonisti degli studi universitari –; i genitori degli amici dei nostri figli e figlie che per tanti anni si incontrano puntualmente davanti ai cancelli di scuola… insomma, di occasioni per miscelare pezzetti delle nostre vite con quelle degli altri sono innumerevoli.

Ma io Lele non l’ho conosciuto.

Nella sua vicenda mi ci sono imbattuto professionalmente la sera stessa nella quale il suo corpo privo di vita venne trovato, dopo tre giorni di incredibile “silenzio”, ai piedi della torretta dell’asciugatoio dei paracadute della caserma pisana della Folgore. Era il 16 agosto 1999. Lele in quella caserma – cioè in quello che per antonomasia è una delle parti più vigilate del territorio nazionale – c’era arrivato tre giorni prima per assolvere agli obblighi di leva.

La mia conoscenza di Lele è avvenuta attraverso le parole, le lacrime, i ricordi più cari, l’amarezza, la pervicacia, l’ostinazione nel non gettare la spugna, del papà Corrado (andato via senza aver potuto intravedere la luce della verità, almeno di quella giudiziale, in fondo al quel tunnel buio nel quale ha camminato per anni ed anni), della mamma Isabella, del fratello Francesco, dei suoi amici più cari. L’ho conosciuto seguendo le tracce del suo vissuto quotidiano, dalla passione per lo sport e per la musica alle estati trascorse al lido di Noto; dalle passioni politiche a quella per gli studi di giurisprudenza; dai suoi sinceri e numerosi slanci di amicizia alla fiera avversione contro ogni prevaricazione. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, purtroppo anno dopo anno, la vicenda e la vita stessa di Lele, così brutalmente interrotta, sono entrati a far parte del mio vissuto professionale e, inevitabilmente, anche personale. Tenere a bada questo coinvolgimento non è stato facile e, sinceramente, non so quanto ci sia effettivamente riuscito.

Di quella storia, da cronista, ho raccontato e scritto tanto; ho letto e riletto atti giudiziari, verbali di testimonianze, rapporti, ricostruzioni di ogni tipo. Ma qui, oggi, con un processo che la Corte di Cassazione ha recentemente definitivamente stabilito che sia di competenza soltanto della magistratura ordinaria e non di quella militare, non è di questo aspetto che voglio parlare.

Preferisco fissare alcune immagini che sono rimaste nella mia memoria: quella del medico legale Franco Coco, siracusano, consulente della famiglia Scieri, che uscendo dalla sala autoptica disse subito, a caldo, che le ferite evidenziate dal primo esame non rendevano compatibile quanto accaduto con un suicidio. Tesi, quest’ultima, che era stata subito avanzata dagli investigatori come se togliersi la vita in caserma, con indosso l’uniforme militare, fosse comunque un fatto se non normale almeno da mettere in conto… E la mente, a questo proposito, non può non correre ad anche alle vicende oscure legate alla fine di altri due giovani siracusani morti con indosso l’uniforme. Il primo, Salvatore Malgioglio, 23 anni, da Francofonte, ucciso da un colpo di fucile partito dalla sua arma di ordinanza mentre nel luglio 1994 era impegnato nell’operazione di vigilanza in un’azienda del Messinese minacciata dal racket. Il processo in questo caso ha escluso responsabilità di terzi. L’altro caso, più recente, è quello di Tony Drago, 25 anni, siracusano trovato morto in caserma a Roma nell’estate del 2014. In questo caso il Gip ha disposto l’archiviazione in quanto non vi sarebbero elementi sufficienti (o sono comunque impossibili da reperire) per accertare una verità processuale differente da quella del “suicidio per precipitazione” che pure i periti avrebbero ragionevolmente escluso….

Tornando alla vicenda di Lele, un altro frame è quello della dedizione e dell’impegno profuso dall’avvocato Ettore Randazzo, un autentico principe del foro, che ha assistito e seguito nei diversi procedimenti la famiglia Scieri. Anche lui è andato via prima ancora che la porta sbarrata iniziasse a cedere sotto i colpi di chi non si rassegnava ad avere giustizia sino a trovare poi nella Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dalla siracusana Sofia Amoddio   la giusta chiave per aprirla.

E infine, naturalmente, c’è il papà di Lele, Corrado Scieri, uomo asciutto nel fisico ma determinatissimo, tenace come pochi altri, capace di raccogliere briciole di energie anche quando sembrava non ne avesse più ed andare avanti con testarda ostinazione. Di lui mi colpì molto quello straordinario rapporto che aveva stretto con gli amici di Lele che in quei giorni non fecero mai mancare il loro aiuto.

L’ultimo frame è quello della straordinaria mobilitazione della città in un caldo pomeriggio di domenica di fine agosto con una fiaccolata che portò in strada migliaia di persone a chiedere subito verità e giustizia per Lele. Fu il momento in cui mi resi conto che quello non era più, non poteva essere, il dolore “solo” di una famiglia ma   era diventato quello di una comunità più vasta, un dolore collettivo capace di vincere anche il caldo e la tradizionale sciroccagine siracusana (mi si perdoni il neologismo).

In questi arroventati giorni d’estate nei quali “Lucifero” non ci sta dando tregua, facciamo tutti ancora uno sforzo: recuperiamo la dimensione più collettiva del ricordo e facciamo memoria. Noi ne abbiamo bisogno e lo dobbiamo a Lele, ma anche a Salvatore e Tony. Lo dobbiamo a noi stessi che abbiamo diritto a vivere in uno Stato che non copra bassezze umane e responsabilità ma operi, concretamente, per individuare colpe e responsabilità. E che lo faccia nei giusti tempi, perché una giustizia che arriva tardi sarà vera giustizia?

[*] Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…).

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