Ma morire di lavoro, morire lavorando – fatalità a parte – non appare una vera e propria contraddizione?

Mi capita assai frequentemente di percorrere in auto i venticinque chilometri circa del tratto autostradale (propriamente detto) che da Augusta conduce sino a Catania. Venticinque chilometri conquistati tra luglio e dicembre del 2009 (inaugurazione a tappe) dopo quarant’anni di attesa costellati da annunci, speranze, illusioni, cocenti delusioni, arrabbiature, proteste, false partenze e stop frustranti. E, soprattutto, 40 (e oltre) anni durante i quali a collegare i due centri produttivi più performanti – specie negli anni sessanta ­ – del Sud Est siciliano (che ancora non sapeva di essere tale… visto che si ragionava in ottica esclusivamente di campanile), vale a dire Catania la “Milano del Sud” e Siracusa “cuore” di uno dei principali poli petrolchimici e della raffinazione di tutta Europa, c’era solamente un nastro di asfalto trafficatissimo, e con diversi tratti a rischio, lungo il quale intere generazioni di automobilisti siracusani (ma non solo loro) hanno immolato un bel grappolo di ore della propria vita.

Lungo questi venticinque chilometri, che sono oggi tra i più moderni della vetusta e rattoppatissima rete autostradale siciliana, si snodano diverse opere d’arte: 12 viadotti, 5 gallerie naturali e 3 gallerie artificiali. E la mia attenzione si concentra proprio su alcune di queste opere d’arte. Gallerie e viadotti, un po’ ovunque, riflettono nomi legati per lo più all’area sulle quali si trovano. Così capita che contrade ai più sconosciuti acquisiscano notorietà perché le relative denominazioni vengono indissolubilmente “legate” a quei viadotti, ponti o gallerie che vi si trovano.

Non sempre è così.

Nel caso dell’autostrada Catania-Siracusa, in particolare, ciò non accade per il viadotto Veneziano e la galleria Maganuco. Le due opere d’arte sono, infatti, dedicate alla memoria dei due lavoratori che hanno perso la vita in incidenti verificatisi nei cantieri durante la costruzione dell’arteria stradale.

Antonio Veneziano era un operaio messinese venticinquenne che il 24 giugno 2006 rimase coinvolto (assieme ad altri 14 colleghi rimasti feriti, due dei quali in maniera più grave) nel cedimento di un ponteggio allestito per la realizzazione di un viadotto.

Due anni dopo, il 19 febbraio 2008, a perdere la vita fu un operaio di 32 anni di Gela, Gaspare Maganuco, morto mentre effettuava delle operazioni all’interno di una galleria.

Questi due nomi, queste due vicende, queste due ferite tornano puntualmente a riaprirsi e sanguinare copiosamente praticamente ogni giorno in questo 2021 segnato da una pesantissima incidenza di morti bianche. E allo stesso modo sanguinano le tante ferite provocate da ciascun morto suI  lavoro.

Quanto “pesante” sia il bilancio lo confermano i dati diffusi dall’Inail nelle scorse settimane relativamente al primo semestre di questo anno pandemico che   parlano di 538 morti, oltre due decessi al giorno. Tutti i giorni, festivi compresi! E anche se il numero degli incidenti mortali sul lavoro di questo primo semestre è inferiore (-32) rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, dallo stesso Istituto arriva l’invito alla cautela nella lettura “ottimistica”  in quanto la pandemia inevitabilmente rallenta alcune rilevazioni, fa emergere alcuni casi a distanza dal verificarsi effettivo dell’evento (tra le morti sul lavoro ci sono anche quelle legate al covid) e dunque per avere un’analisi aderente alla realtà occorre ancora del tempo.  Ma è una drammatica e dolorosa contabilità in divenire, che non conosce zone franche. La Stampa, recentemente, ha prodotto per la propria edizione on line una mappa dell’Italia interattiva: ogni punto rosso sulla cartina dello Stivale rappresenta una vittima. Cliccandoci sopra compare una breve scheda descrittiva dell’incidente. E’ una mappa che cambia praticamente di giorno in giorno, è una mappa sempre di più colorata di rosso. Rosso come il sangue delle tante vittime delle “morti bianche” (ma perché poi chiamarle così?).

Ma il timore è che, paradossalmente, proprio il numero così consistente e il fatto che questi incidenti mortali sul lavoro siano spalmati nella nostra quotidianità, quasi ci impedisce di renderci bene conto di quel che si tratta, di quale tragedia si consumi sotto i nostri occhi in maniera quasi silenziosa. Al netto, ovviamente, di alcune vicende di cronaca che per alcuni aspetti intrinseci conquistano con più evidenza la ribalta mediatica.

E anche nelle ultime ore il tributo di sangue è stato versato con la morte a Gressan in Valle d’Aosta di un imprenditore (ex sindaco di un piccolo centro della zona, al suo ultimo lavoro prima di andare in pensione) e di un operaio che era in cantiere con lui. Storie dolorosamente simili a decine e centinaia di altre, più o meno recenti, storie di affetti familiari travolti, storie capaci di scavare solchi profondi nel tessuto di intere comunità. Vicende sempre uguali e al tempo stesso profondamente differenti le une dalle altre. E basterebbe solo questo per impedirci di farci l’abitudine, di considerare le “morti bianche” qualcosa di naturalmente legate al nostro tran tran quotidiano.

Ma morire di lavoro, morire lavorando – fatalità a parte – non appare una vera e propria contraddizione? Il lavoro, tanto agognato, inseguito, tenacemente conquistato, quello che ci consente di crescere, di mettere su famiglia, di sostenere i figli finchè – a loro volta – non saranno nelle condizioni di lavorare, di mettere stabilmente un tetto sopra la testa, non dovrebbe piuttosto essere sinonimo di vita? Cosa ha inceppato la “macchina” di uno sviluppo equilibrato, armonioso, dove il legittimo profitto di chi fa impresa non vada mai a scapito della salute e della sicurezza di chi lavora per concorrere a creare quella ricchezza (collettiva)?

Di risposte possibili, plausibili, convincenti, ve ne sono di certo. Anzi, ognuno di noi avrà probabilmente la propria “infallibile” ricetta. Non ne dubito.

Io, sin qui, la mia non riesco però proprio a individuarla. Continuo a cercarla, anche mentre sull’autostrada Siracusa-Catania con la mia auto attraverso il viadotto Veneziano e mi infilo nella galleria Maganuco.

[*] Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…).

Condividi: