Visto che la nostra città è diventata famosa in tutto il mondo ad agosto scorso per le temperature eccezionali che hanno sfiorato i 50 gradi, sono stata invitata da alcuni colleghi britannici a raccontare la mia esperienza. Mi ha fatto piacere riflettere sulle sensazioni di quei giorni rivolgendomi a questi colleghi esteri e adesso vorrei offrire anche a voi questi pensieri.
Intorno al 7 agosto 2021, erano giornate sopra i 30 gradi, come di consueto molto calde. Ero impegnata con gli ultimi dettagli del nuovo libro, “Psicopatologa della situazione”, che dovevo consegnare all’editore proprio in quei giorni. I media avevano preannunciato un caldo eccezionale, sopra i 40. Tutti ci chiedevamo: Come si fa a resistere a temperature così alte? Nessuno aveva la risposta. Solo raccomandazioni di bere molto.
Poi è arrivato quel caldo temuto, per due giorni il nostro organismo è stato immerso in una temperatura di 45-48 gradi. Nelle ore più calde l’aria che entrava dalle finestre era fuoco, e dovevamo chiudere tutte le aperture delle case, per proteggerci. Paradossalmente, dovevamo proteggerci dal caldo come si fa per il freddo, isolandoci dall’ambiente.
Due giorni terribili, non solo per il disagio provocato dalle alte temperature, ma anche per la consapevolezza, confermata da tutti i media, che negli anni a venire avremo sempre più di queste giornate. Come farà il nostro corpo a resistere a questo innalzamento delle temperature? L’idea del sangue che arriva a bollire nelle vene è terribile. Quanti morirebbero e chi riuscirebbe a salvarsi? E come si muore di caldo? Che succede, cosa si sente?
Da brava fenomenologa, sono stata nell’esperienza di quel caldo, l’ho “assaporata” senza combatterla. Ho pensato alla poesia di Goodman che i Polster hanno posto come incipit del loro libro “Terapia della Gestalt Integrata”: “Assaporò la sensazione di essersi smarrito, quando tutto ciò che capita diventa una sorpresa (…) toccò il suo corpo, si guardò attorno, e sentì ‘Qui io sono e adesso’ e non fu preda del panico” (P. Goodman, The Empire City).
Non sentivo dolori contro cui combattere, non sensazioni traumatiche, ma piuttosto sentivo sonno, e la voglia di addormentarmi. È così che funziona allora quando il caldo ci uccide? È così che una gran parte dell’umanità morirà tra qualche anno se non riusciremo a salvare il pianeta? Ci si addormenta senza sapere di morire. Il caldo fa funzionare al minimo tutto, compreso il cervello. La morte per il freddo deve essere qualcosa di simile.
La mia mente creava scenari apocalittici in cui, tra qualche decennio o anche meno, un terzo della popolazione mondiale morirà per il caldo estremo, un terzo per inondazioni e catastrofi naturali, e un terzo per pandemie. Nel contempo il mare era bellissimo, pulito, calmo, lasciava vedere chiaramente pesci e flora marina con la sua trasparenza. Nuotare in quel mare, stare nella bellezza di quelle acque al tramonto con colori spettacolari sia nel cielo che nell’acqua, sembrava un regalo che questa terra bistrattata ci faceva nella sua grande generosità, dimostrandoci che il dolore può anche generare bellezza se riconosciuto nella sua vitalità.
Se quest’anno abbiamo avuto due giorni con 50 gradi, l’anno prossimo ne avremo forse 5, tra due anni 10. Qualcuno di addormenterà e se ne andrà senza soffrire, semplicemente perdendo i sensi e abbandonandosi alla morte. Una specie di depressione fisiologica mortale, un disappropriarsi della capacità di ad-gredere, della vitalità che ci consente di essere curiosi, di avanzare nel mondo, di acquisire novità e crescere. Sarà così che moriremo, quando la temperatura nel pianeta continuerà ad alzarsi?
Siamo attoniti davanti alle catastrofi ambientali. In Germania, negli Stati Uniti e in tante altre parti del mondo gli uragani spazzano via case, paesi interi. La gente perde tutto, i sogni di una vita, il senso di sicurezza che viene dall’essere individui produttivi in una comunità sociale. Cosa possiamo fare davanti alla forza della natura che si rivolta contro di noi? Ci sembra che, almeno sul momento, non possiamo combattere per difenderci, non c’è un orso o una tigre da uccidere per salvare la vita. Ma, proiettandoci in un tempo/spazio più ampio, sappiamo bene cosa possiamo fare, dobbiamo rispettare la natura. Una cosa così semplice richiede una sinergia tra popolazioni e governi che non è stato possibile realizzare finora, e che forse non sarà possibile in futuro. Gli interessi egoistici di chi dovrebbe rinunciare a sfruttare e avvelenare la terra sono stati più forti dello sguardo intelligente sui cambiamenti necessari per salvare l’umanità.
Allora oggi più che mai ognuno di noi dovrà assumersi la responsabilità di essere parte di un pianeta che ha bisogno di aiuto. Ognuno di noi dovrà diventare un po’ come Greta Turnberg, alzare la voce, dire ciò che accade, essere un esempio di esistenza-in-contatto con la realtà della terra in cui viviamo.
Avremo la forza di fronteggiare il problema, senza negarlo o fuggire in altri pianeti, e credere che possiamo farcela? Avremo la fede che ci farà piantare un milione di alberi al giorno, il senso civico che ci farà ripulire una spiaggia che non abbiamo sporcato noi?
È più facile negare la gravità del problema e continuare a fare ciò che stavamo facendo prima. Che possiamo fare davanti a una minaccia così grande in cui sono i governi a doversi muovere?
Sappiamo tutti che il male peggiore, la psicopatologia di questa situazione, è pensare di non potere fare nulla.
Rivolgerci ad una teoria del “campo organismo/ambiente”, come quella gestaltica, è di grande aiuto. È importante che nessuna delle due parti si anestetizzi nell’incontro tra due diversità da cui ha origine ogni crescita (come diceva Eraclito, e come Perls e Goodman ribadiscono). Ogni crescita implica una novità da destrutturare e assimilare, un processo co-creato che richiede l’apporto di entrambe le parti.
Forse la novità del cambiamento climatico è troppo grande per essere destrutturata e affrontata. Eppure è fondamentale che noi siamo consapevoli di ciò che accade nel qui e ora, come effetto di cambiamenti globali, quando c’è un caldo da 50 gradi, o quando a San Pietroburgo, non lontano dal polo nord, quest’anno si sono registrati 30 gradi per due settimane[1], o quando le piogge si trasformano sempre di più in uragani.
Dove è il nostro sé in quel momento? Che tipo di presenza possiamo mantenere in questi eventi, in modo da esserci pienamente e orientarci verso un’azione protettiva che tenga conto dell’ambiente? Come possiamo mantenerci attivi, svegli, non solo nell’emergenza di una catastrofe ambientale, ma soprattutto quando ci sembra di tornare alla normalità?
Rispetto all’uomo che combatteva una minaccia visibile, noi siamo in una situazione agevolata, perché possiamo comprendere ad ampio raggio fenomeni apparentemente distanti e in realtà interconnessi. Possiamo pertanto prevenire, e usare le capacità integrative del sé, comprendendo la linea di continuità che esiste tra vari eventi che non rispettano la natura. È lì, nel pezzetto di plastica che dobbiamo buttare da qualche parte che si attiva il nostro sé, non soltanto perché obbediamo alle regole del riciclaggio dei rifiuti, ma perché siamo consapevoli di cosa accadrebbe a quel pezzetto di plastica se lo abbandonassimo sulla spiaggia o nel mare. Non dovremmo avere pace quando vediamo sacchi di spazzatura abbandonati nelle campagne o per strada. E se comprendiamo questo, sarà ovvio addestrare i nostri figli al valore della pulizia dell’ambiente, non solo della casa. Il pianeta è la nostra casa.
Siamo in un tempo in cui ciò che ci porta alla distruzione è l’essere desensibilizzati verso la complessità del rapporto uomo/natura. Occorre riconoscere innanzitutto le fragilità che sono alla base di questo rapporto, una consapevolezza nuova rispetto all’idea della forza dell’uomo sulla natura.
Non ci sono orsi o tigri da annientare per salvare la razza umana, ma fragilità da rispettare per preservare la possibilità di convivere. Non ci sono mari infiniti in cui gettare tutto, o atmosfere eteree in cui disperdere i veleni. Il mare, la terra, il cielo sono elementi tra di loro in un meraviglioso equilibrio delicato. La terra non è la grande madre che accoglie tutti i nostri rifiuti, né un minaccioso animale da domare. La terra è un sistema meravigliosamente complesso, di cui noi umani facciamo indissolubilmente parte, la cui forza deriva dal rispetto della fragilità dei suoi processi integrativi. Non possiamo più negare le conseguenze a lungo termine di azioni che ignorano questa sua fragilità.
Sono certa che i bambini capirebbero meglio di noi questo concetto, e se vedessero qualcuno gettare una carta per terra saprebbero che la terra deve accogliere quella carta in qualche modo, deve processarla. La carta non dovrebbe sparire dal nostro immaginario nel momento in cui è gettata per terra. Sta a noi adulti educare i bambini di tutto il mondo a considerare la terra come una alterità di cui prendersi cura, piuttosto che come una “grande madre” capace di accogliere tutto e da sfruttare senza farsi domande.
Ciò che possiamo fare personalmente dunque ha un valore tanto grande quanto quello di un governatore di una nazione che decide sulle emissioni velenose nell’atmosfera. Noi possiamo cambiare lo sguardo sulle cose, entrare nel paradigma della reciprocità (Spagnuolo Lobb, 2021), e aiutare gli altri a fare altrettanto. Per esempio, quando ci prendiamo cura degli altri – come psicoterapeuti, medici, insegnanti, o semplicemente come genitori – pensiamo a rendere le persone capaci di superare i traumi, o di sentirsi forti davanti all’ansia, oppure apriamo una finestra su come loro si percepiscono in rapporto alla natura, e lavoriamo sull’equilibrio possibile con l’ambiente? Il rapporto con la natura è diventato un elemento dello sfondo delle persone, che non possiamo trascurare. Il nostro sguardo dovrebbe includere domande del tipo: “come ti senti qui e ora in rapporto alla natura che ti circonda? Come senti la terra su cui cammini? Ti senti sostenuto? E il tuo passo è sensibile alle necessità della terra?”
Sono certa che questa attenzione concreta ad entrambe le parti del campo organismo/ambiente ci consentirebbe di esplorare una sofferenza particolare da cui oggi le persone si desensibilizzano (il trauma di un pianeta che sta male) e renderebbe le persone consapevoli della sofferenza della terra e responsabili delle loro azioni.
Come ci insegna oggi la terapia della Gestalt, è questa la situazione più importante di cui dobbiamo occuparci, per creare sfondi di sicurezza che consentiranno alle persone di essere presenti (non desensibilizzate davanti ai traumi ambientali) e conseguentemente sviluppare soluzioni creative per la crisi ambientale.
Referenza
Spagnuolo Lobb M. (2021). Essere psicoterapeuti della Gestalt al tempo del Coronavirus: Percepire lo sfondo esperienziale e “danzare” con reciprocità. Quaderni di Gestalt, XXXIV, 1: 33-50. DOI: 10.3280/GEST2021-001005.
[1] In quella città, solo qualche anno fa, ci si preoccupava che i tubi dell’acqua potessero scoppiare per le temperature estremamente fredde, a meno 35 gradi.
Rubrica a cura di Margherita Spagnuolo Lobb
Scuola di Specializzazione in Psicoterapia
Istituto di Gestalt HCC Italy
Centro Clinico e di Ricerca
training@gestalt.it