Per la serie non ci credo ma non si sa mai… diciamo che il 17, come numero, non mi esalta. A maggior ragione dopo aver scoperto che l’Italia è scivolata indietro, appunto, di ben 17 posti (ma qui cabala e Iella hanno davvero ben poco a che vedere), nella classifica che ogni anno Reporter senza frontiere stila per “fotografare” lo stato di salute della libertà di stampa in 180 diversi Paesi del mondo.

I dati, per altro diffusi in occasione della Giornata internazionale della libertà di stampa, sono un pugno nello stomaco: l’Italia è adesso al 58/mo posto. Per capirci, siamo appena davanti alla Nigeria e subito dietro alla Macedonia del Nord (e qui l’incredibile scivolone di Palermo di un mese e mezzo fa che all’Italia del pallone è costata l’eliminazione dai mondiali di fine anno non c’entra nulla). Per capire le ragioni del ruzzolone all’indietro – appena un anno fa eravamo al 41/mo posto, piazzamento che confermava il risultato dell’anno precedente – basta andare a scorrere le righe dedicate al nostro Paese nel quale esiste un “panorama mediatico ben sviluppato”  articolato in “un’ampia gamma di mezzi di comunicazione che garantiscono una reale diversità di opinioni”. Dunque, almeno in linea teorica ci sono le condizioni-base per aspirare ad insidiare il terzetto di testa della classifica dei Paesi nei quali la libertà di stampa è meglio garantita, vale a dire Norvegia, Danimarca e Svezia (rispettivamente prima, seconda e terza). Per di più, si legge ancora nel report, “per la maggior parte, i giornalisti italiani godono di un clima di libertà”.

E allora? Allora accade che, prosegue l’analisi, i giornalisti “a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi, o per conformarsi alla linea editoriale della propria testata giornalistica, o per evitare una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale, o per paura di rappresaglie da parte di gruppi estremisti o criminalità organizzata”. Più esplicito il report sul piano della sicurezza dei cronisti in Italia. “I giornalisti che indagano sulla criminalità organizzata e sulla corruzione sono sistematicamente minacciati e talvolta soggetti a violenze fisiche, compresi incendi dolosi alle loro auto o alle loro case. Campagne intimidatorie online vengono orchestrate per “punire” i giornalisti che hanno il coraggio di esplorare temi così delicati come la collusione tra famiglie mafiose e politici locali. Venti giornalisti stanno attualmente ricevendo protezione 24 ore su 24 dalla polizia perché vittime di intimidazioni, minacce di morte o attacchi”.

Dunque, un po’ per paura e un po’ per evitare rogne, talvolta si finisce con l’essere più realisti del re. A ciò si aggiunga che “a causa della crisi economica, i media nel loro complesso sono sempre più dipendenti dagli introiti pubblicitari e da eventuali sussidi statali, mentre anche la carta stampata sta affrontando un graduale calo delle vendite. Il risultato è una precarietà crescente che mina pericolosamente il giornalismo, la sua energia e autonomia”.

Se tutto questo apparisse come una fotografia generica, scattata da lontano, con un teleobiettivo puntato in una direzione diversa dal luogo nel quale si trova ciascuno di noi, faremmo un errore colossale. Quel -17  in classifica parla a ciascuno di noi, parla di ciascuno di noi, dei nostri territori (ovunque siano dislocati lungo lo Stivale): un sistema dell’informazione tenuto sotto scacco dal precariato, dalla tentazione ricorrente di imbavagliarlo, dalle richieste risarcitorie milionarie, dalla scarsa formazione, dall’approssimazione, dalla superficialità dell’analisi, dalla mancanza di merito, dalla chiusura sistematica delle redazioni, dalla cancellazione di testate che non di rado sono state la voce narrante di un territorio, non indebolisce solo il pianeta-giornalismo, non mette alle corde gli operatori del settore. Tutto ciò mette in discussione quella “salute democratica di un Paese” il termometro della quale il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha individuato proprio nella “libertà di stampa e nella libertà di essere informati”. L’Italia arretra pericolosamente proprio in un momento in cui il tessuto televisivo locale vive, sulla propria pelle, l’ennesimo depauperamento. La necessità di “liberare” frequenze per fare posto al 5G ha, di fatto, cancellato nella sola Sicilia decine e decine di testate. Voci spente, o che si stanno spegnendo, quasi sempre nell’indifferenza generale perdendo anche posti di lavoro. Si obietterà : che posti sono quelli nei quali non viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro, nei quali si “gioca” al massimo ribasso nel remunerare i collaboratori (quando accade), nei quali la linea di demarcazione tra lavoro giornalistico e attività promo-pubblicitaria, così nettamente tracciata dalle carte deontologiche, viene sistematicamente calpestata e ignorata   (dai giornalisti stessi, non di rado)? Ecco, il nodo è proprio questo: serve rimettere mano all’intero settore chiedendo però che ognuno faccia per bene e fino in fondo la propria parte. La progressiva desertificazione delle redazioni, i continui processi di uscita forzata dai ruoli attivi dei giornalisti scaricando oneri e costi su un Istituto di previdenza (da sempre autentico baluardo della categoria e punto strategico dell’affermazione di indipendenza dei giornalisti) che da qui a poco meno di due mesi sostanzialmente sparirà per confluire all’Inps) sono strade che si sono dimostrate inutili da percorrere per ridare equilibrio al settore. E si è pagato pesantemente dazio, e si continua a farlo, sotto il profilo dell’autorevolezza e dell’affidabilità dell’informazione.

[*] Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…)

  • Nella foto in evidenza la recente manifestazione siracusana dedicata alla libertà di stampa.
Condividi: