“Torniamo al gusto del Pane”

La testimonianza di don Massimo dal Congresso Eucaristico Nazionale di Matera

 

Ma cosa significa portare il peso dell’altro in una società sempre più votata all’individualismo e all’egoismo?

L’individualista di oggi è uno che risponde ad una struttura che lo coinvolge indipendentemente dalla sua consapevolezza. Si parla tanto di rinascita della comunità ma solo in contesti di crisi, sarebbe più giusto dunque chiamarlo comunitarismo di sopravvivenza.

Una comunità che di fatto si raccoglie intorno alla propria sopravvivenza individuale solo quando sente minacciata la sua stessa esistenza. È dunque un uso improprio della parola “comunità”, la cui etimologia ci riporta al latino “communis”, che nei suoi minimi termini descrive il carattere di chi svolge il suo incarico in una situazione condivisa,  insieme agli altri. È da questo substrato che la communitas emerge quindi come rapporto di comunanza civile e socievole. Emerge nel traguardo di un onere condiviso, splendidamente ambiguo: perché il “munus” è l’obbligo ma anche il dono. La comunità è un obbligo ma è soprattutto un dono. “Insieme” è un dono. Ma la parola “insieme” è implicitamente legata a “sempre”, “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”. Non solo nell’emergenza.

Ciò implica il rispetto. Colui che rispetta non va in maniera tumultuosa davanti a sé ma, mentre cammina si volge indietro, da “respicio”, volgere lo sguardo verso chi sta dietro. Rispettare non è un movimento automatico, mentre andare avanti ha un suo automatismo. Nel rispetto c’è un senso di comunità legato ad un senso etico di sguardo, di attenzione verso chi non è nel mio orizzonte. Ci sono momenti in cui bisogna davvero rispettare, ossia fare spazio a ciò che non mi appartiene, alle difficoltà dell’altro che non riesco a capire. E questo viene a costituire la nostra identità. L’identità si costruisce nella responsabilità, portare il peso dell’altro che spontaneamente non porterei su di me ma che mi richiama. Se non c’è rispetto non siamo soggetti. Il soggetto non è colui che agisce avendo avanti le sorti della vita ma è il “subiectum”, ossia la passività che precede l’attività. Il “soggetto” allude quindi ad una profonda passività, allora quando si è assoggettati si è davvero soggetti, quando si porta il peso. Gli uomini sono chiamati dalla vita stessa ad una forma di solidarietà e responsabilità. Gli uomini non sono spontaneamente egoisti e chiusi in sé stessi, si tratta soltanto di ascoltare profondamente la realtà dell’esistenza.

È proprio su questo senso di solidarietà, fraternità e responsabilità che fa perno l’omelia di Papa Francesco, recitata lo scorso 25 settembre, a conclusione del XXVII Congresso Eucaristico Nazionale dal titolo “Torniamo al gusto del pane – Per una chiesa eucaristica e sinodale” che si è tenuto dal 22 al 25 settembre nella città di Matera. Promosso dalla CEI, in collaborazione con la diocesi di Matera – Irsina guidata da mons. Antonio Giuseppe Caiazzo.

«[…] l’Eucaristia è profezia di un mondo nuovo, è la presenza di Gesù che ci chiede di impegnarci perché accada un’effettiva conversione: conversione dall’indifferenza alla compassione, conversione dallo spreco alla condivisione, conversione dall’egoismo all’amore, conversione dall’individualismo alla fraternità.

Fratelli e sorelle, sogniamo. Sogniamo una Chiesa così: una Chiesa eucaristica. Fatta di donne e uomini che si spezzano come pane per tutti coloro che masticano la solitudine e la povertà, per coloro che sono affamati di tenerezza e di compassione, per coloro la cui vita si sta sbriciolando perché è venuto a mancare il lievito buono della speranza.

Una Chiesa che si inginocchia davanti all’Eucaristia e adora con stupore il Signore presente nel pane; ma che sa anche piegarsi con compassione e tenerezza dinanzi alle ferite di chi soffre, sollevando i poveri, asciugando le lacrime di chi soffre, facendosi pane di speranza e di gioia per tutti. Perché non c’è un vero culto eucaristico senza compassione per i tanti “Lazzaro” che anche oggi ci camminano accanto.»

Così il Papa invita gli 800 delegati, tra cui 80 vescovi, provenienti dalle 160 diocesi italiane presenti al Congresso, a portare il suo messaggio nelle città della terra di “poeti, sunaturi e stampasanti”.

Spezzarsi come pane per l’altro. Offrirsi all’altro come pane. Come Cristo, attraverso l’Eucarestia, si offre a noi, esseri finiti in comunione con l’Eterno.

L’Eterno si offre a noi, comprende, cura le nostre ferite, ci dona “il silenzio e la pazienza”, ci conduce con il suo amore perfetto per “le vie che portano all’essenza”. Si offre come scelta e salvezza per l’uomo.

Proprio come il poeta giarrese dell’infinito, spirito eletto, ci descrive nella sua preghiera al contrario, “La cura”.

Dio si rivolge all’uomo, lo considera un “essere speciale” di cui si prenderà cura.

Nell’intervista a Don Massimo Di Natale, presbitero dell’arcidiocesi di Siracusa e direttore dell’Ufficio liturgico diocesano, che ha partecipato al Congresso Eucaristico Nazionale nel ruolo di delegato per la diocesi di Siracusa, gli abbiamo chiesto di spiegarci dal punto di vista religioso cosa significasse “spezzarsi come pane” per l’altro.

«Farsi pane spezzato significa  condividere con il fratello ciò che tu hai celebrato all’altare.

Il cristiano sente il bisogno di incontrare Dio, di celebrare l’eucarestia la domenica, giorno del Signore, ma non come precetto ma come esigenza di incontrarLo nei segni sacramentali. Lui, vivo e vero, che, nutrendomi della Sua parola e del Suo corpo, mi porta a diventare pane spezzato per gli altri.

Ma poi la realtà di tutti i giorni è la vita quotidiana. Se l’eucarestia non ti porta al fratello, la vivi in modo intimistico, spirituale e non è questo il modo di vivere la fede.

Ce lo dice S.Giovanni nella sua I Epistola:

“Noi amiamo, perché Egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.”

Attraverso l’eucarestia veniamo compassati, diventiamo parte di Lui e Lui parte di noi, non siamo al di fuori.

Bisogna testimoniare, occorre vivere i misteri celebrati all’altare.

Sull’altare c’è l’eucarestia celebrata secondo i canoni della Santa Madre Chiesa, liturgicamente e canonicamente perfetta, ma poi la vera eucarestia la si celebra nella quotidianità. Posso essere un bravo sacerdote ma se poi non metto in pratica l’eucarestia come pane spezzato che mi consumo giornalmente perché il signore mi da la possibilità di incontrare, non la sto celebrando.

Non possiamo nutrirci di eucarestia e stare fermi. L’eucarestia è dinamica. Io dico sempre che la mensa eucaristica deve portarci ad un prolungamento dell’altare verso i nostri fratelli, verso la periferia esistenziale.

Mentre gli altri tre apostoli parlano dell’eucarestia, San Giovanni non parla della sua istituzione, al posto dell’ultima cena parla della lavanda dei piedi. Come chiaro esempio del servire gli altri.»

Siamo dunque tutti esortati ad essere fattivamente ermeneuti di questo messaggio sacrale che è l’eucarestia.

Il don ci parla della partecipazione al Congresso con gioia e responsabilità, sottolineando l’esperienza di fraternità condivisa con la delegazione della diocesi di Catania, con la quale ha affrontato il viaggio per Matera.

Ci racconta di quanto la Via Lucis eucaristica, con le sue tappe di riflessione, abbia impreziosito il convenire di tutta la Chiesa italiana in quei quattro giorni di preghiera, meditazione e condivisione.

E proprio alla meditazione fa riferimento nella sua relazione mons Giammarco Busca, Vescovo di Mantova e presidente della Commissione episcopale per la Liturgia, facendo riflettere gli ascoltatori su quanto il mondo non sia solo un dono di Dio agli uomini, quanto un compito per l’uomo.

Dell’importante compito umano di portare sempre il pane in noi, parla la dott.ssa Giuseppina De Simone, docente presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale nella sua relazione dal titolo “Il gusto buono del nostro Pane. Chiesa, sinodalità, Eucaristia”.

«Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti, ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di se stesso. […] Niente più del pane racconta la storia dell’umanità.»

Il messaggio ultimo è quello di non guardare solo al proprio orticello, così come Dio, attraverso suo Figlio, è sceso tra gli uomini, per camminare accanto ai tanti “Lazzaro”, bisogna “scendere dal podio” perché come diceva il grande Gigi Proietti nel suo discorso finale de “Il Premio”, “è proprio negli affanni del quotidiano di un’esistenza normale che si misura il senso più autentico del nostro cammino comune.

Introducendo non solo il concetto di carità ma anche quello di atemporale reciprocità. Un’onda di solidarietà che si propaga nel tempo e nello spazio, superando l’hic e nunc, perché, solo attraverso la sua azione caritatevole l’uomo oltrepassa la fragilità della sua condizione, della sua finitudine. Oltrepassa la sua temporalità. Scendendo dal podio e facendosi pane per l’altro durante il cammino comune.

 

  • Edizione tipografica del 28 novembre 2022
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