Nel celebre discorso di Gesù sulla vite e i tralci, proclamato nella liturgia di questa domenica, Gesù raccomanda ai suoi discepoli di “rimanere” sempre in Lui, affinché le sue parole “rimangano” in essi, e producano così frutti abbondanti nella loro vita.

Questo verbo “rimanere” è stato sempre oggetto di grande attenzione da parte degli esegeti, perché ricorre frequentemente nel Vangelo giovanneo, ed è tipico del linguaggio di Gesù per indicare il livello profondo e potremmo dire quasi “mistico” di intimità che Egli intende instaurare con i propri seguaci.

Il “rimanere” di cui parla Gesù trasmette l’idea di una condizione permanente nella quale sentirsi avvolti dal contatto con Lui, come farebbero le pareti accoglienti di una dimora.

I cristiani, «nel mondo ma non del mondo» (cf Giovanni 15,18 e 17,16), non trovano mai pienamente «dimora stabile» (Ebrei 13,14) nella vita su questa terra, perché non si conformano alla «mentalità di questo secolo» (Romani 12,2), preferendo alla mondanità le beatitudini evangeliche.

Questo status di pellegrini, stranieri e ospiti (cf Lettera a Diogneto, capp. 5-6), rende i cristiani dei costanti cercatori di un “luogo” ideale nel quale poter «posare il capo» (Matteo 8,20; Luca 9,58) come il loro Maestro, e il discepolo amato del quarto Vangelo decide di far riposare il proprio capo soltanto sul petto di Gesù (cf Giovanni 13,25).

È nel suo Cuore pieno d’amore che il cristiano “abita”, su quel costato trafitto dal quale il Crocifisso ha versato «l’acqua e il sangue della nostra redenzione» (antifona Ave verum Corpus), in quella piaga dalla quale è scaturita la sorgente di grazia dei sacramenti vitali per la Chiesa.

Allontanarsi da Gesù vorrebbe dire arrendersi a fare della propria vita un tralcio secco, nel quale non scorre più linfa vitale, appassito per il mancato nutrimento della Parola di Dio, irrigidito per il gelo di un indifferentismo religioso e morale, tarlato dal dubbio radicale su ogni speranza radicata nella fede, polverizzato dalle sterili ideologie di moda, bruciato dall’arsura della mancanza di una guida e un riferimento certo a una vita davvero felice.

Le sofferenze di un’esistenza accartocciata nei passi falsi condotti allontanandosi da Cristo sono l’inequivocabile prova che davvero senza di Lui non possiamo far nulla (cf Giovanni 15,5).

Nel “rimanere” in Cristo, col coraggio di gettare via i tralci secchi della propria vita, e l’ardimento di potare senza paura i tralci rigogliosi e fecondi di frutti, il cristiano sperimenta l’unione con Dio che dà slancio ed efficacia alla propria preghiera: «se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Giovanni 15,7).

Già nel capitolo precedente del Vangelo Gesù assicura: «qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò» (Giovanni 14,13-14).

Egli insisterà tornando sull’argomento per approfondirlo: «in verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Giovanni 16,23b-24).

La pienezza della gioia, più volte richiamata sia nel Vangelo di Giovanni che nella sua prima Lettera, è un traguardo raggiungibile, promesso a chi ascolta e mette in pratica il comandamento dell’amore di Gesù: affrettiamoci dunque a viverlo concretamente, e ci sentiremo “a casa” rimanendo uniti a Lui, come il tralcio alla vite.

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