È ancora così forte l’impatto del recentissimo shock collettivo che ha colpito tutta la nostra comunità diocesana, in seguito alla terribile notizia riguardante la tragica morte di un bambino di Palazzolo Acreide caduto accidentalmente in un pozzo, che non possiamo non leggere anche il Vangelo di questa domenica in controluce con questo avvenimento drammatico.

Ed è proprio dal Vangelo che, anche in questo caso, attendiamo la luce per essere fortificati nella fede e la pace per essere sostenuti nella speranza. Sempre, in una inarrestabile dinamica vitale, il Vangelo ci interpella e noi interpelliamo il Vangelo. Non potremmo dirci cristiani se, di fronte a una tragedia del genere, rinunciassimo a chiedere una risposta e una parola di vera consolazione proprio alla guida della nostra vita, che è soltanto la Parola del Signore.

La prima risposta che emerge oggi è la tenerezza del coinvolgimento di Gesù negli affetti familiari e nella solidarietà coi sentimenti umani. Altamente espressiva è la scelta dell’appellativo aramaico talità, col quale Gesù si rivolge alla figlioletta di Giairo, tradotto in greco dall’evangelista Marco con un termine molto grazioso: koràsion, vezzeggiativo derivato da kòre (“ragazza”), che attraverso il latino puella della Vulgata è passato alle nostre traduzioni italiane con un troppo letterario “fanciulla”. In realtà, koràsion possiede un tono molto colloquiale e confidenziale, che potremmo rendere con un’espressione più comune, quale ad esempio “signorinella”, o con qualche idioma regionale più verace, come “gioia mia”“tesoro mio”“stellina mia”, e simili.

Gesù entra – forse per la prima volta – nella casa di un’autorità religiosa del suo tempo (il capo della sinagoga), e già si muove con una libera affettuosità, espansiva ma composta, empatica ma discreta, confidenziale ma rispettosa, che di fatto lo fa percepire con naturalezza come uno di famiglia, quasi un affezionato “zietto” della ragazzina da resuscitare.

Il racconto del portentoso prodigio si conclude senza alcuna solennità, ma con una prosaica indicazione di Gesù che sarà suonata più o meno così: “adesso datele qualcosa da mangiare!”. Questo inatteso imperativo sembra riflettere un ricordo ancora bene impresso nella memoria dei testimoni oculari, poi confluito in modo genuino nel testo evangelico, proprio per l’incisività delle parole esatte e forse persino del tono di voce udito direttamente dalla bocca di Gesù.

Gesù si preoccupa in modo affettuosamente apprensivo, davvero come uno zio o comunque una persona intima, che dopo tutto il trambusto dell’improvvisata cerimonia funebre si badi concretamente a preparare un ricostituente per la bambina, e si dirotti l’attenzione sulle necessità per la sussistenza della sua vita, anziché su esteriori formalità esequiali non più necessarie.

Tutto, in questo brano del Vangelo, fa respirare un’atmosfera di semplice familiarità. L’evangelista non si cura nemmeno di enfatizzare con particolari esclamazioni il fatto che la ragazza era morta e che è stata risuscitata, ma descrive questo miracolo straordinario col tono pacato che si utilizzerebbe per un qualsiasi ordinario quadretto di vita domestica quotidiana: porte chiuse, soltanto il più stretto nucleo familiare presente, una bambina dorme, poi si sveglia, si alza e le viene preparata la colazione.

Dopo lo struggente strazio dei lamenti funebri, la quiete serenamente gioiosa dell’affetto familiare: è il miracolo che vorremmo veder ripetere per il bimbo annegato pochi giorni fa nel pozzo di Palazzolo, al quale – come a tutti i bambini del mondo così prematuramente strappati alla vita terrena – soltanto Gesù sa ridonare la vita e la gioia, esortandoli kum (“àlzati”, cioè “risorgi!”), prendendoli per mano e accogliendoli per l’eternità nell’angolo più beato del Paradiso, dove attendono di poter riabbracciare per sempre i loro cari.

 

Nell’immagine in evidenza l’interno della Basilica di San Paolo, Palazzolo, che è stata utilizzata sui social dal parroco Marco Politini per rappresentare lo stato d’animo della comunità.

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