Tranne la cristiana, nessuna tradizione religiosa ha un giorno dedicato alla commemorazione comunitaria dei defunti. Il 2 novembre tutti sanno che è “il giorno dei morti”: non ci sarebbe bisogno che il nostro calendario segni “commemorazione dei defunti”. Solo per saperlo, le altre religioni monoteiste conoscono sì la visita personale-familiare ai sepolti ma non il ricordo comunitario di tutti i defunti da parte di tutti. Per l’Islam è illecito per tutti pregare sulle tombe, costruirvi sopra moschee, accendere luci. Gli Ebrei, senza data fissa, prima del Capodanno civile e del giorno liturgico detto Yom Kippur, sono invitati a visitare i loro defunti: non si lasciano fiori, si possono porre piccole pietre sulle lapidi. Ciascuna famiglia liberamente lo fa nella ricorrenza mensile e annuale del decesso, accendendo anche candele.

Più articolato nel senso e nel modo il riferirsi dei cristiani ai propri e altrui defunti: come una sola famiglia ci si ritrova a commemorare tutti i defunti, come se fossero propri. La fede dei cristiani, sempre creativa, dalla esperienza umana delle necropoli, inventa le catacombe e, via via, sepolture in prossimità dei luoghi di culto – cimitero e camposanto – e addirittura dentro le chiese. Il senso di attività cultuali così specifiche e soluzioni architettoniche tanto ardite – che muovono dal credere la comunione dei santi e la risurrezione della carne – è condensato dalla massiccia, serena e rispettosa occupazione che i vivi fanno un giorno all’anno, il 2 novembre, del luogo dove giacciono i defunti. Perciò le tombe messe a nuovo, pulitissime. Fiori e luci. Soste di preghiera, attestazione di elemosina in suffragio del morto – il fiore che non marcisce – poste in prossimità del loculo. E mentre mamme del perduto figlio e vedove siedono ad attendere visita, custodi della piccola chiesa come al Sepolcro, nei viali sciamano famiglie che rinnovano le relazioni sociali nella comune unione ai defunti propri, a quelli altrui, ai migranti sconosciuti o addirittura rimasti ignoti. L’avere in calendario ‘il giorno dei morti’, con la sua ritualità sociale comunitaria, esprime una fede che trasforma la qualità e il senso del vivere.

La festa dei morti, come si denomina in Sicilia il 2 novembre, con la sua intensa ritualità, per coloro che si dispongono annuncia, celebra e compie capillarmente il senso della fede e il suo valore per la vita del mondo e degli umani. Turbati dalle vittime bambine della guerra vicina, sconcertati dalla pandemia, sconvolti da ogni femminicidio,  privi di spiegazioni di fronte agli orrori degli assassini della porta accanto, esterrefatti dalle violazioni della dignità umana dei lavoratori schiantati dagli incidenti, scossi dalle privazioni dei diritti dei migranti tutt’uno con la violazione dei diritti civili dei cittadini, i cristiani mentre percorrono i viali del cimitero, tutti in un solo giorno, non cantano inni alla morte, né da questa si lasciano incantare.

La morte non è l’ultima parola. Ascendenti, parenti e amici morti questo suggeriscono a discendenti congiunti e affini ancora vivi. La vita biologica non esaurisce la vita, c’è ancora vita perché c’è un altro mondo. Ma c’è di più. C’è un altro pezzo di verità, non verità filosofica o facoltà dell’intelletto e ideologica, che dalla fede professata nella risurrezione dei morti tracima ed esonda nel mondo dei vivi: non si deve avere paura della vita. La vita è un oceano vasto ed infido, burrasche e tempeste mai domate si susseguono. L’elenco dei disagi, delle malattie, dei deficit e dei disturbi che le nostre famiglie attraversano è ormai senza limite. Anche di questi sconvolgimenti della vita non si deve avere paura. I cristiani apportano nel mondo questa  verità nella prassi solidale e sociale, per la parola di Colui che della morte e della vita ha bevuto sorso a sorso tutto quello che c’era da bere. Rendere viva la vita, che la vita sia capace di essere viva (Recalcati). Un giorno all’anno, tutti nessuno escluso, i cristiani – incredibile paradosso – fra le tombe dei defunti annunciano che credono alla parola che dice di amare Dio, amare il prossimo, di amare finanche il nemico e di amare non la morte ma il morire. Muovendosi tra filosofia e teologia un filoso così si esprime: In maniera necessaria e imprescrittibile, imprevedibile, non catturabile ci avviciniamo alla morte, ed essa a noi.

I cristiani non si arrendono alla morte ma praticano il morire, forti della parola del Maestro: dietro a me con la tua croce la tua vita che muore germoglia vita. Non ci è detto di “amare la morte” quanto piuttosto “il morire”, che è movimento di approssimazione. Il nostro prossimo è il quotidiano morire. Il prossimo è il morire nel venire avanti della persona e di lei, la morte. Il prossimo imprevisto, perpetuo samaritano, che non sa se quell’uomo “mezzo morto per mano di briganti” per il quale sente di intervenire e compromettersi si rivelerà per lui amico o nemico (Cacciari). Ad ogni Ave Maria i credenti distillano consapevolezza che la morte viene sì di continuo tanto da suggerirci di valorizzare ogni istante come decisivo di vita, di bene, di prossimità solidale. Ogni momento è gravido di promessa di vita. Il mondo attende il nostro amare senza misura, a costo finanche di morire. Il 2 novembre la carità dei morti in Cristo questo insegna.

* L’Autore è direttore del settimanale diocesano di Agrigento “L’Amico del Popolo”.

 

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