LENTINI – Se c’è una festa antica, ancestrale forse, rimasta intatta nei secoli questa è proprio la Pasqua. Con i suoi riti, i sui misteri, che in Sicilia si intrecciano con riti spagnoli, barocchi, cristiani ma anche greci e romani. La Pasqua con i suoi archetipi è e rimane la madre di tutte le celebrazioni religiose, la celebrazione religiosa per eccellenza, senza la Pasqua non ci sarebbe il cristianesimo. La Pasqua, in Sicilia ed a Lentini aveva una serie di tradizioni, in parte perdute, che la facevano diventare una ricorrenza unica nel suo genere, sacro e profano, cristianesimo e paganesimo si fondevano. Si iniziava con il mercoledì delle Ceneri e l’arrivo di un sacerdote, generalmente un frate che avrebbe dettato gli esercizi spirituali e le meditazioni giornaliere del vangelo, dalle tentazioni di Cristo nel deserto alla conversione, alle guarigioni. Nelle chiese tutti i crocifissi venivano coperti da un drappo viola. Il solenne triduo pasquale iniziava il giovedì santo. Per tutta la mattinata, dopo che i ragazzini avevano portavano in chiesa “u lavureddu”, piantine soprattutto di grano o di lenticchie fatte germogliare al buio, andavano per le strade, agitando le “troccule” o “matroccule”, e invitando i passanti ad andare in chiesa perché il Signore era solo. Il termine “lavureddu” è il diminutivo di lavuru, che nel dialetto siciliano è sinonimo del lavoro per eccellenza, la coltivazione del frumento o del grano. Secondo alcuni studiosi, “u lavureddu”, che in alcuni paesi dell’entroterra agrigentino viene preparato anche durante la festa del santo patrono, rappresenterebbe i giardini di Adone, simbolo della fertilità, quindi della resurrezione, che venivano allestiti in Grecia tra la fine di marzo e gli inizi di aprile, per commemorare l’amore tra Afrodite e Adone e propiziare la fertilità della terra e degli animali.
Occorre ricordare che la chiesa il 25 aprile oltre a celebrare San Marco faceva nei paesi agricoli, come Lentini la festa delle rogazioni, con una solenne processione, simile a quella del Corpus Domini, lungo il perimetro esterno della città, durante la quale si benedicevano le campagne e per chiedere a Dio di avere un raccolto abbondante. Durante la settimana santa le campane venivano sostituite da segnali acustici di legno realizzati con le “troccule”. Il termine “troccula”, secondo alcuni studiosi deriva per metatesi dal greco crotalon, sonaglio, mentre per altri è di origine onomatopeica. Il nome troccula comprende tutti gli strumenti di legno come quelli a concussione o a percussione reciproca. Generalmente la troccula è realizzata con una tavoletta di legno di forma rettangolare, su cui sono incernierate due o più parti mobili come ad esempio delle maniglie di ferro, che producono il suono mediante percussione. Altre volte la troccula invece utilizza dei martelletti o delle ruote dentate, che producono il suono mediante raschiamento. Dopo la messa in Cena Domini era esposta la statua dell’Hecce Homo, dalla famosa frase di Ponzio Pilato detta dopo che Gesù era stato flagellato e coronato di spine. La statua era portata nell’altare dove erano allestiti i sepolcri (sepuccra), ornati di fiori e dai lavureddi, e offerta alla venerazione dei fedeli. Spesso i fedeli tra il giovedì santo e il sabato santo facevano u “trapassu”, l’astinenza totale del cibo, che poteva essere interrotto solo con fave caliate e carrube, che non venivano considerate “grazia di Dio”. Pare che il famoso detto “u rimediu da fami sunu i carrubbi” alluderebbe proprio all’utilizzo delle carrube durante il digiuno pasquale. Il venerdì santo per strada venivano eseguiti i lamenti per l’imminente morte di Cristo e si invitano i fedeli al pentimento. Una antica nenia diceva: “Lu venerdì santu di lignu è la campana, Gesùzzu a tutti chiama ca ni voli perdunà. Lu venerdì santu appuntu a vintun ura, l’aria è scura è mortu Gesù…”. Nel primo pomeriggio si celebrava la Via Crucis e dopo c’era “a scinuta a cruci”.
La deposizione di Gesù dalla croce e a seguire la solenne processione del Cristo morto lungo “u giru santu”. La processione del Venerdì santo era una delle più sentite e anche commoventi di Lentini. Aprivano la processione le confraternite con i soci vestiti di nero e con le insegne della confraternita in testa. Ricordiamo tra le confraternite quelle della Madonna del Carmelo, dei tre Santi, della Madonna della Catena, quella di Gesù e Maria e quella di San Giuseppe. Ricordo che la processione era così lunga che quando le prime associazioni erano arrivate all’altezza della chiesa di San Francesco di Paola, in via Conte Alaimo, il Cristo morto era ancora dentro il sagrato della chiesa. Alla fine del “giru santu” nei pressi “da Potta Iaci” (piazza Oberdan), i canonici della ex cattedrale “ittavuni i curi”, lunghi strascichi ornati di ermellino, retaggio di un antico privilegio approvato da papa Clemente IX nel 1668 che consentiva ai canonici di Lentini di vestire, in certe occasioni, la cappa cardinalizia violacea con cappuccio rosso e manto di ermellino. Questo ricordava anche un antico privilegio dovuto alla sede vescovile, per cui il parroco della chiesa madre era nominato dal papa e non dal vescovo, ciò è stato in passato fonte di diatribe e anche scomuniche. La solenne messa con la liturgia della luce veniva celebrata il mezzogiorno del Sabato e culminava con “a cascata a tila”, un grande lenzuolo decorato con i simboli della passione di Cristo, che copriva tutto l’altare maggiore della chiesa Madre. Si cantava quindi il Gloria e poi, contemporaneamente, tutte le campane delle chiese della città suonavano e annunciavano la risurrezione del Salvatore. Al tocco delle campane gli uomini nelle case battevano le porte con tralci di vite, aventi un numero dispari di nodi e declamando ad alta voce: “nesci fora diavuluni ca è risortu Cristu Salvaturi”, oppure “nesci diavuluni ca trasi Cristu Gesù”, mentre le donne buttavano secchi d’acqua davanti gli usci, perché si credeva che così facendo si poteva dare sollievo alle anime del Purgatorio. La Domenica di Pasqua, dopo la benedizione e la processione che dall’edicola della Madonna del castello giungeva sino in piazza Duomo, c’era il concerto della banda comunale, che per l’occasione eseguiva la “Cavalleria rusticana”. Si procedeva quindi allo scambio degli auguri, donando agli amici più vicini, ai parenti e soprattutto ai bambini “u cicilio” o “aceddu cu l’ovu”, un dolce fatto con pasta zuccherata e uno o più uova sode con il guscio dipinto, il tutto modellato generalmente a forma di cestino, porco spino o di uccello. Il vocabolo ciciliu, è di origine onomatopeica è indica il pigolare degli uccellini.
Il ciciliu veniva fatto con uno o più uova non sgusciate e cotte. A volte le uova potevano essere colorate. In altre parti della Sicilia “u ciciliu” o “panareddu cu l’ovu”, “pupu o pupa cu l’ovu” oppure “cudduredda cu l’ovu” . U Ciciliu si preparava durante la settimana santa e i ragazzini che ovviamente non lo potevano mangiare usavano pronunciare questa filastrocca: “Ciciliu ciciliù dopu Pasqua ti mangiu iù”. L’uovo nell’antichità era considerato l’origine di tutte le cose, l’origine stessa della vita, Era presente nelle effigi degli dei e dei faraoni egiziani. In Grecia era famoso l’uovo di Orfeo, citato dai filosofi come simbolo della fecondità e della forza generatrice della terra. Col cristianesimo l’uovo diventa il simbolo della speranza, l’immagine concreta della resurrezione. Le uova pasquali sono attestate nella liturgia cristiana già a partire dal V secolo e rompevano l’astinenza quaresimale, quello che in dialetto era chiamato il cosiddetto “Càmmaru” dal quale deriva il termine cammaria, noia, stanchezza o debolezza. Per il giorno di Pasqua si preparavano dei biscotti e dei pani particolari. La tradizione dei pani di pasqua è tipica della Sicilia e di altre regioni italiane (Liguria). Più che di pane si tratta di un vero e proprio dolce, che veniva consumato spesso in chiesa dopo il Gloria e donato ai sacerdoti e ai religiosi. Il pane era considerato il simbolo della fertilità, dell’abbondanza, e l’uso di preparare pani durante le principali feste dell’anno serviva a propiziare la fertilità degli animali dei campi e l’abbondanza dei raccolti. Nel sarcofago di Adelfia (trovato alla fine dello scorso secolo nelle catacombe di Siracusa) è raffigurato un Abramo che offre il pane. Teocrito nel XV Idillio a proposito della festa della fertilità parla delle donne che impastano il pane da utilizzare durante la cerimonia: ”[…]quante leccornie su la madia impastan le donne/corolle d’ogni genere mescendo alla bianca farina/ quando s’intride col miele, col fluido licor de l’uliva[…]”. Il pane richiama anche l’Eucaristia, quindi il consumare pane particolare durante la festa era un modo per propiziare una fede più viva. Mentre si mangiava il pane di Pasqua, gli uomini dicevano: “u Gloria sunau e a cuddurura si spizzau (suonato il Gloria si spezza il pane)”. Durante la Pasqua poi i fidanzati e gli sposi si regalavano tra loro dolci di pastaforte o di pasta reale. Il fidanzato regalava alla fidanzata un dolce a forma di agnello e lei ricambiava con uno a forma di pesce o di cuore, mentre i consuoceri si regalavano tra loro i cudduri di pane. Un dolce tipico della Pasqua era la cassata, un antico proverbio diceva: “Tintu cun nun mancia cassati a matina di Pasqua”. Il termine cassata deriverebbe dal siciliano casu e dal latino casium, cioè latte o formaggio, quindi cassata = torta a base di formaggio (anche la ricotta è in senso lato un formaggio). Una vecchia filastrocca ricorda l’uso delle cassate a Pasqua: “La festa e l’allegria di tuttu l’annu, / lu Paradisu di stu munnu, / e lu sollevu d’ogni tristi affannu, / li cassati di Pasqua sunnu”. Oltre la cassata si mangiavano le cassatelle, che non erano delle piccole cassate, ma un dolce diverso. Le cassatelle potevano essere fritte nell’olio o infornate e avevano dentro la ricotta, erano consumate la sera della Pasqua. Le cassatelle erano poi offerte ai parenti, agli amici e ai dipendenti, da cui il proverbio “cu nnappi nnapi de cassateddi di Pasqua”. Che poi sarebbe chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Per la Pasquetta la tradizionale gita fuori porta si svolgeva a Carlentini, dove si celebra la festa di San Giuseppe, con la tipica sfilata dei carretti siciliani, mentre i più intraprendenti andavano sul colle di Ciricò per consumare, sull’erba, una frugale merenda. Buona Pasqua!