Elio Toaff, nel libro intervista Essere ebreo dichiara: «Se viene meno la speranza va tutto a rotoli. Non si può pensare a niente, bisogna avere fiducia nell’uomo e nell’umanità. Mi puoi dire che qualche volta siamo stati delusi sia dall’uomo sia dall’umanità: però se si perde questa speranza non ci rimane che il suicidio». Queste frasi lapidarie dell’ex rabbino capo di Roma richiamano disperatamente ai fatti di questi giorni, quando possiamo affermare con certezza di assistere ad un fenomeno di confusione antropologica, in cui il concetto di persona e di essere umano non esiste più. Un tempo in cui si è persa ogni speranza, schiacciata dalla forza politica e militare che non tiene conto di nessuno.
Secondo l’opinione corrente, il 7 ottobre 2023 si conferma una data epocale che ha visto palestinesi della Striscia, terroristi, schizzati via dai recinti di sicurezza, invadere uno spazio pacifico e colpire giovani riuniti per festeggiare in allegria. Gli altri dettagli sono noti alla cronaca. Una data storica descritta come uno spartiacque che ha segnato lo schieramento del mondo tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici, tra invasione e diritto di esistere, tra cultura occidentale democratica e cultura mussulmana prepotente e terrorista. Una data che ha puntato i riflettori sul conflitto israelo-palestinese, perché proprio quell’attacco è stato considerato un rigurgito di antisemitismo.
La dialettica è stolta se rimane acritica e se non porta ad una “verità” condivisa.
Lungi dal giustificare un tale attacco efferato, dobbiamo chiederci il perché: 70 anni di chiusura, di permessi negati, di restrizione della mobilità, di negazione della libertà, cosa hanno potuto generare?
Ripete con forza Paulo Freire: «Come possono gli oppressi non essere violenti se loro sono il frutto di una violenza?».
E mons. Sabbah, Patriarca Emerito di Gerusalemme, ha sempre ribadito un concetto: «Se parliamo di terrorismo (in Terrasanta NdR) ci sono sempre due parti colpevoli: prima, quelli che eseguono tali azioni, quelli che le progettano, e coloro che le supportano; ed in secondo luogo, quelli che creano situazioni di ingiustizia che incitano al terrorismo».
Oggi, a un anno e mezzo da quell’attacco, il mondo tenta di fermare l’azione devastante, su cose e persone, della vittima. Si inizia finalmente a parlare di condanna della politica militare di Israele. Perché le voci di dissenso all’azione politico-militare del governo israeliano sono arrivate così tardivamente? Non ci si aspettava una tale risposta armata? Non conoscevamo l’imponente spiegamento di forze militare di cui gode Israele, un lembo di terra occidentale e “democratico”, circondato dai paesi arabi che ne minacciano l’esistenza? Non erano ancora freschi nella nostra memoria gli attacchi su Gaza del 2006 o del 2014?
Le ragioni si possono probabilmente trovare in quel “senso di colpa” che l’Occidente prova nei confronti del popolo ebraico, come retaggio della Shoah, una colpa che impedisce di ferire la sensibilità dei “fratelli maggiori”, come li ha chiamati San Giovanni Paolo II. Spesso anche ai fratelli maggiori bisogna saper dire dove sbagliano! Il riguardo verso il popolo ebraico ha alimentato un “colpevole” silenzio-assenso che si è giustificato con il senso di impotenza assai diffuso e con l’omissione di responsabilità. Ci rifugiamo nella comfort zone delle nostre coscienze, usando l’obsoleta dicotomia tra buoni e cattivi. Un errore di giudizio in cui spesso si incorre (e che purtroppo genera atteggiamenti sconsiderati e improduttivi) è confondere il popolo ebraico con lo Stato militare e il Governo in carica in Israele. Da un’attenta lettura dei fatti e delle opinioni sappiamo bene (ma poco se ne parla) che esiste una vivace quanto decisa opposizione endogena ad Israele, che – se non ascoltata – lo farò esplodere dal suo interno.
I dibattiti pubblici amplificano due parole che suscitano le divergenze: genocidio e terrorismo.
Chi scrive si domanda: si combatte il terrorismo con un genocidio? Credo che una risposta non ci sia. Ma c’è piuttosto, e purtroppo, una certezza: il terrorismo non è oggi, ma è domani; il genocidio non è oggi, ma è domani. Per genocidio “di domani” intendo lo sterminio di un futuro di pace e di rispetto perché l’oggi scava delle profonde spaccature tra popoli vicini, tra culture e religioni, poi non così tanto distanti e diverse.
- Musallam nel 2000 scriveva: «Se si volesse uccidere un popolo basta tagliare la sua lingua e occupare la sua terra». Il terrorismo “di domani” sarà quello che griderà una vendetta carica di odio di chi ha visto morire i propri cari sotto le bombe, di chi ha visto la famiglia sterminata, che ha visto i beni, accumulati a fatica (in una condizione di carcere a cielo aperto che dura da 70 anni) sbriciolati sotto le bombe, come ogni sogno di bambino e di ragazzo. Sarà la lingua di una narrativa che fino ad ora ha potuto raccontare molto poco di sé.
Se ci chiediamo quale sia la nostra responsabilità, dobbiamo chiederci se domani avremo il coraggio di dire ad un sopravvissuto: «Non scegliere la via della violenza come risposta a ciò che hai subito per anni, di distruzione, di fame e di morte!».
Da qui il titolo di questa riflessione. Il verbo “investire” ha due significati completamente opposti: “impegnare risorse per un bene durevole”, oppure “assalire violentemente qualcuno, anche con azioni militari”. Quando si agisce in base al secondo significato, la speranza vacilla.
Come vorrei tanto che oggi ogni militare israeliano si trovasse di fronte al pedagogista ebreo Martin Buber il quale, come un secolo fa, gli domanderebbe: «Dimmi tu? Hai fatto prevalere l’individualismo della collettività: la “mia” razza, la “mia” nazione, la “mia” opera, la “mia” sopravvivenza, il “mio” diritto: come facciamo adesso?».
Allo stesso modo vorrei che ogni palestinese rileggesse le pagine di Mahmoud Darwish: «Dammi il tuo indirizzo e ti darò la pace». E con il poeta ripeterebbe l’invito ai vicini di casa a fidarsi, a credere in una convivenza pacifica possibile.
Ai governanti rivolgerei il desiderio di Cicerone: Arma cedant togae, il diritto prevalga sulle armi.