Nun mi cuntari lu tò lamentu. La stidda dintra l’occhi nun mi l’ha stutari… Restu cca, ppi cu mu voli sentiri cantari”. Carlo Muratori è rimasto. E canta. Canta il bello e il brutto della Sicilia, di Siracusa, ma con una certezza: che qui dove “lu malutempu dura tuttu u tempu” si può, si deve dare il meglio di sé. Si può cantare il cambiamento. Si può suonare una musica diversa. E dipende da noi. Solo da noi. Dal sale con cui sapremo insaporire la nostra minestra. E proprio “Sale” si intitola l’ultimo lavoro discografico (Le Fate editore) del cantautore siracusano (65 anni) fra i più raffinati esponenti della musica popolare e folk italiana, con contaminazioni pop e jazz. Dall’estremo lembo dell’Italia, a cominciare dai primi esordi con I Cilliri negli anni Settanta, ha saputo da una parte superare le frontiere ed esibirsi nei più importanti festival folk internazionali, e dall’altra importare voci dal mondo nel borgo di Ferla con la rassegna “Lithos”. Grazie alla sua ricerca etnomusicologica ha permesso di riscoprire e conservare frammenti della tradizione popolare che sarebbero altrimenti andati perduti. Volti e storie.

“Dovremmo toglierci la maschera del lamento, dell’indifferenza, del menefreghismo per metterci invece la faccia della responsabilità, dell’impegno, dei costruttori di presente e di futuro in una città di una bellezza che ormai – a noi che la abitiamo – passa totalmente inosservata. O ci illude che possiamo vivere di rendita per sempre, mentre ci abbandoniamo al lamento. È vero, a Siracusa non ci sono spazi di espressione, non c’è un vero teatro, né un conservatorio. Abbiamo una classe dirigente mediocre, qui come in tutto il Paese, riflesso di tempi in cui tutti credono di poter fare tutto, basta avere un telefonino in mano… Ma come disse profeticamente il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, ‘non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese’. Questo dobbiamo fare”. Ecco, il sale che possiamo mettere noi per Siracusa. “Da tempo immemore così recita un adagio siciliano: ‘Cu havi chiù sali conza ‘a minestra’, ossia chi ha più sale prepari e insaporisca una minestra… Quel sale che è inteso come sapienza, come pazienza e scienza del vivere, descrive in maniera mirabile la cultura, la civiltà, la sapidità del popolo siciliano. Questa strana generosità di un Sud povero che aiuta e accoglie i poveri e i disperati di altri Sud del mondo. Proprio quel Sud che ha avuto più sale ma meno minestre, più sapere ma meno poteri, più speranze ma meno certezze – dice Muratori toccando alcuni temi caldi del suo lavoro, dagli eterni mali dell’isola al dramma dei migranti –. Per comprendere il tutto bisogna concentrarsi sulle piccole cose: osservare due occhi e il sale delle loro lacrime per capire la sofferenza dell’intera razza umana, guardare una stella per comprendere il cielo sconfinato”.

Dolore e speranza, dunque. Rabbia e voglia di riscatto. Pensiamo alla costa siracusana insediata dal petrolchimico che ha cancellato le saline di Priolo e di Augusta, ma il sale non muore, “scava altre vie, si materializza altrove”: “Nello stesso periodo in cui spariva dalle saline, sul finire dell’estate del 1953, si manifesta sotto le sembianze di fluido lacrimale. In una umile abitazione dei quartieri popolari di Siracusa, un quadretto di gesso, al capezzale di una giovane coppia, raffigurante l’immagine della Madonna, inizia a gocciolare lacrime. Per tre giorni interi, piange la Madonnina. Lacrime vere, umane, salate che cadendo sulla terra ci riportano su, un cielo gravido di mistero e luminose profezie”.

Le saline forse non torneranno nelle coste violate di Siracusa, ma il sale c’è, di mare, di terra e di lacrime. Per dare gusto e un’opportunità alle speranze di una terra “scavazzata da suverchiaria d’o putiri” che aspetta ancora la primavera. Il futuro? In mano ai giovani. Ai loro volti. Che vanno sostenuti perché “non pensino che qui non ci sia futuro”. Da qualche tempo Muratori sostiene il fermento di giovani musicisti, con una nuova etichetta “Triade” proprio per raccogliere talenti e farli esprimere. Volti ancora poco conosciuti, come la diciannovenne Claudia Anastasi, ma che saranno sicuramente il volto della Siracusa di domani. Perché anche loro possano dire “Resstu cca, ppi ccu mi voli sentiri cantari”. Ma in un’altra Siracusa. Quella che sapremo costruire insieme. Come orchestra. Di volti. Senza maschere.

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