“Tu hai una vita sola, spendila bene”, comincia così l’intervista a Maria, con questa frase, tratta da una canzone del gruppo Gen 3.  Maria, il nome convenzionale di una donna che vuole rimanere anonima, ha 24 anni, è siciliana. Per motivi lavorativi, non appena laureata, è stata costretta a spostarsi al Nord Italia. Maria é un’infermiera e nell’ultimo periodo è stata in trincea a battersi per la vita di centinaia di persone colpite dal nuovo Codid-19, ogni giorno. Non era costretta a rimanere, il suo contratto non lo prevedeva, essendo una libera professionista con partita iva. Poteva rientrare in Sicilia non appena scattato l’allarme ma non l’ha fatto. È rimasta a dare sostegno ed aiuto ai suoi colleghi, a strappare vite alla morte, è rimasta a spendere bene la sua di vita. Ci parla di come si svolgono le sue giornate da quando è scoppiata l’epidemia.

“Sveglia alle 5 – racconta Maria – per essere a lavoro alle 6.30, faccio colazione e di corsa mi preparo. Videochiamo la mia mamma per tranquillizzarla. Prendo il bus, quasi vuoto ormai, salvo quei 4/5 pendolari i cui uffici sono rimasti aperti. Arrivata in ospedale mi preparo, faccio i vari lavaggi e metto le dovute protezioni. Mi preparo anche psicologicamente alla battaglia, perché ogni giorno, da più di un mese a questa parte, io ed i miei colleghi ne combattiamo una. Una battaglia contro un nemico invisibile, che si manifesta dapprima attraverso sintomi banali ed in ultimo attraverso l’ormai conosciutissimo “tampone”.

Sono infermiera al pronto soccorso. 

I “possibili infetti” arrivano da noi, attendono, molte volte circondati da parenti, di entrare. Gli sguardi preoccupati, l’espressione disperata e gli occhi lucidi di chi può essere un “infetto”, di chi non sa cosa accadrà di lì a due ore. Quando lasciano la sala d’attesa per entrare al pronto soccorso, lasciano lì anche i loro cari, insieme a sogni e speranza. All’interno si procede poi con i vari accertamenti. Cerchiamo di tranquillizzare i pazienti, di distrarli. Gli chiediamo cosa fanno nella vita, se hanno figli, nipoti, fratelli.

Molti reagiscono bene, altri sono talmente terrorizzati all’idea di poter essere infetti che non riescono a non fare domande sul virus e noi rispondiamo, tranquillizzandoli. Purtroppo il contatto con il paziente è davvero molto poco a causa delle protezioni indossate da noi, personale medico. Si intravedono appena gli occhi, ma credo basti. Gli occhi comunicano tanto.

Dopo il tampone – continua Maria – i pazienti aspettano da soli in una saletta adiacente al Ps, in attesa del risultato. Ho visto persone scoppiare in lacrime di gioia dopo l’esito negativo del tampone. Ed altre paralizzarsi dopo l’esito positivo. Ogni tampone positivo che esce dal laboratorio è una pugnalata al cuore per noi, per il paziente e per i suoi cari.

Un paio di giorni fa, è successa una cosa strana. Arriva al PS un signore anziano, 80 anni, era solo, risulta essere positivo al tampone. È toccato a me dare la brutta notizia, ma stranamente quando mi sono avvicinata per comunicarglielo lui mi ha bloccata, aveva già capito. E mi ha sorriso. Un sorriso vero, difficile da descrivere.

“Signorina, ho già capito. Non voglio darle la sofferenza di dovermelo comunicare. Fate già tanto per la nostra comunità. So già quale sarà il seguito. Ma va bene. Ho vissuto la mia vita e l’ho fatto alla luce di Dio, sulle orme di Chiara.”

Ho capito subito, il sangue mi si è raggelato. Stava parlando di Chiara Luce, una ragazza che morì giovanissima, affetta da osteosarcoma, e che spese tutta la sua vita al servizio del prossimo. Osservando il primo principio del movimento al quale faceva parte, il movimento dei focolari. Al quale anche io faccio parte.

Abbiamo parlato a lungo, nonostante la mia imbracatura riuscivo a percepirne il calore umano. Lui da infetto infondeva coraggio a me. “Lei è una guerriera, ha deciso di spendere bene la sua vita”.

Quell’uomo non era lì per caso, quell’uomo era un messaggero del volere di Dio, che mi vuole lì, a combattere in prima linea. Così l’idea di andare via è stata spazzata definitivamente dalla mia mente. Anche se i turni si sono raddoppiati, anche se la notte non dormo quasi più, anche se mia mamma piange al telefono perché vorrebbe che tornassi in Sicilia, anche se torno a casa con i segni della mascherina che indosso e le mani distrutte dai guanti, anche se rischio ogni giorno il contagio, io so che il mio posto è lì. Al servizio di un papà, di un nonno, di uno zio, di una mamma, di un fratello che potrebbe essere il mio.”

Così si conclude l’intervista a Maria, che non vuole stare in prima pagina, non vuole comparire. Vuole che la sua esperienza figuri per lei.

Sacrificarsi per salvare il prossimo.

Spendere al servizio dell’amore la propria vita. È questo ciò che Maria e tutti quelli che come lei, sono impegnati in prima linea per questa emergenza globale, fanno. Meritano quindi un nostro grande e sentito ringraziamento. Affinché il mondo non si scordi di loro, del loro sacrificio, quando l’emergenza sarà finita.

Credito fotografico: Immagini dalla rete.

Condividi: