Non si può negare: il Covid-19 è una vera sciagura. La globalizzazione, forse per la prima volta, manifesta sintomi profondi delle sue gravi anomalie. L’inatteso virus sta sconvolgendo le nostre abitudini. Costringe tutti a stare in casa chissà per quanto tempo; obbliga a diminuire i rapporti sociali, crea nuovi muri, spopola le piazze, impedisce alle aziende di lavorare a pieno ritmo, tarpa le ali al commercio e al turismo, lascia a terra gli aerei. Inoltre: chiude scuole, teatri, musei, luoghi di aggregazione; annulla, o differisce a data da destinarsi, Incontri, Convegni, Congressi programmati da tempo. E ancora: fa svolgere manifestazioni sportive in stadi e palazzetti a porte chiuse o le rinvia o le annulla. E giunge persino a sospendere la celebrazione delle Sante Messe con presenza di fedeli, costringendo a partecipazioni virtuali via TV o in streaming e a sostituire la reale comunione eucaristica con quella spirituale.
Insomma, una iattura inaudita e senza precedenti. Ma, per favore, cerchiamo di non essere blasfemi: non si tratta di un flagello inviato da Dio per indurci a conversione. Dio è Amore ed è Padre, e per San Paolo «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28). Certamente è una Sua permissione per procurarci un bene maggiore: una emergenza da cui saper trarre una lezione di vita.
Nel dolore, nella sofferenza – infatti – si può “crescere” come persone umane, perché siamo costretti a ritornare al vero senso della vita, a ciò che conta veramente. La prova ci fa riflettere su come conduciamo le nostre esistenze e sul valore che assegniamo ad aspetti ai quali, in momenti come questi, neanche pensiamo.
Proviamo a considerare insieme quali siano, paradossalmente, i “benefici” di una quaresima vissuta al tempo del coronavirus.
C’è una dimensione sociale dell’epidemia da Convid-19 che viene sottovalutata. Il virus indirettamente ha provocato e provoca ogni giorno di più, accanto ai tanti effetti negativi se non drammatici, non pochi miglioramenti nella convivenza civile.
La società intera riprende a pensare alla qualità della propria vita, alle cose future, al bene.
Obbliga a riscoprire gli affetti più prossimi, a rivalutare la famiglia e la casa come luoghi di sicurezza, a rimettere insieme mamme e papà con i propri figli.
Spinge a uno stile di vita più sobrio, e a pregare un po’ di più, a riscoprire la preghiera del cuore oltre a quella nelle chiese.
Questo drammatico evento ci fa capire meglio, anzitutto, che siamo tutti fratelli; ci fa ritrovare il senso di appartenenza, la comunità, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prenderci cura e che si può prendere cura di noi; la reciprocità, la responsabilità condivisa. Il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano; e che tu dipendi da loro.
Allora? Il vero pericolo non è il Coronavirus, ma la paura del Coronavirus. Ci alziamo la mattina, accendiamo la tv e lo smartphone, navighiamo sul web e sui social, ed è un bombardamento, una trappola da cui non sappiamo come uscire. Il numero dei morti e dei contagiati, le aree rosse e arancioni, …, aumentano la paura personale e collettiva, generano psicosi, scatenano la corsa all’accaparramento di generi alimentari…Abbiamo sempre più paura: «e la paura abbassa le nostre difese immunitarie – come spiega lo psichiatra Raffaele Morelli – e se continuiamo con questo ritmo di negatività entriamo in un vortice, in una spirale, dalla quale faremo sempre più difficoltà ad uscire».
Un fatto positivo: cresce sui social l’umorismo e l’autoironia, con la condivisione di vignette e brevi video, che sdrammatizzano ed esorcizzano la paura.
Accresciamo la consapevolezza che dobbiamo accettare la nostra fragilità ed i suoi limiti biologici che l’epidemia di Coronavirus ci pone dinnanzi, e riconquistiamo uno spazio adeguato per la preghiera, come esigenza profonda di trovare il possibile baricentro della nostra esistenza nel rapporto fiducioso con Dio Padre.
(*) Credito fotografico: La Difesa del Popolo, settimanale della diocesi di Padova.