Poche ma essenziali coordinate sono necessarie per comprendere una tragedia greca del V secolo a.C.

Innanzitutto, dobbiamo avere la consapevolezza che la tragedia ateniese è il patrimonio più significativo trasmessoci dall’antichità e che rappresenta un unicum  (una cosa speciale ed unica) nella storia della civiltà occidentale. Essa non era uno spectaculum, cioè uno spettacolo, un racconto da vedere, una fiction nel senso moderno del termine, come, invece, lo fu per il modo romano e il primitivo ambiente mediterraneo.

Tutta la produzione teatrale ateniese è concentrata tra queste due date precise: anno 472  a.C. – Eschilo rappresenta i Persiani – e anno 401 a.C. – viene presentato l’Edipo a Colono di Sofocle. Il regime politico era la scandalosa democrazia, il governo del popolo.

La tragedia ad Atene era un fenomeno di massa, era inserita, incastonata nel rituale religioso dionisiaco ed aveva il compito fondamentale di educare come cittadini, cioè come individui, giuridicamente riconosciuti che hanno diritti e doveri, quella massa di contadini poveri e diseredati che erano gli abitanti dell’Attica prima delle spedizioni persiane (490-480 a.C.)

Essa è stata parte integrante della comunità ateniese e ne ha scandito i ritmi e lo sviluppo, le contorsioni, la storia, le sventure. Lo strumento utilizzato per le conseguenti elaborazioni politiche, sociali e religiose era il mito, cioè quel coacervo religioso di racconti, che affondava le proprie radici nelle descrizioni favolistiche dei primi tempi degli uomini, quando gli uomini stavano insieme con gli déi, amoreggiavano con gli déi.

Quindi, la tragedia è una forma di riflessione pubblica, che, attraverso il racconto mitico, lo attualizza per parlare dei grandi temi della società ateniese: la giustizia, l’obbedienza alle leggi. L’esempio, quasi l’archetipo della tragedia ateniese, è costituita sicuramente l’Edipo re di Sofocle rappresentato nel teatro di Atene nel 429 a. C. in piena guerra contro gli Spartani.

La scena si apre con la Reggia di Tebe, dove governa felicemente Edipo, figlio di Laio, della stirpe di Cadmo, fondatore della città. Compare una folla variegata di personaggi umili e potenti: sono semplici cittadini, donne con i loro figli piccoli, giovani, contadini, artigiani, sacerdoti e uomini di corte. Sono venuti tutti insieme per chiedere l’intervento del sovrano. È scoppiata nel paese – dice l’anziano sacerdote di Zeus – una terribile peste nella città. La città è stata piegata/ ondeggia come una nave in tempesta/ nessuno è più in grado di sollevare/ il capo dagli abissi dei flutti, colore del sangue; / le donne sono diventate sterili/ i campi marciscono/ tutto è in rovina/. Tu, Edipo, una volta ci salvasti/ dalla odiosa sfinge. Salvaci ancora!

Edipo rassicura il sacerdote. Non capisce però il motivo della collera degli déi sulla città. Per capire come contrastare l’odiosissima peste manda un messaggero a Delfi, a consultare l’oracolo, come si faceva sempre nell’antichità, in presenza di situazioni difficili.  E subito dopo appare il messaggero che riporta la risposta del dio Apollo: “Dovete liberare la città dalla contaminazione della terra che è iniziata con l’uccisione del vecchio re di Tebe, Laio”.

Edipo promette di indagare e lo stesso giorno fa un proclama, con il quale afferma che l’uccisore di Laio sarà ricercato da tutti ed è destinato a morte sicura. Edipo, come in thriller psicologico, si mette alla ricerca del colpevole, interroga lui stesso i possibili testimoni. Minaccia il cieco Tiresia, sacerdote di Apollo, che gli aveva indicato di cercare il colpevole nella sua stessa casa; addirittura, gli rinfaccia le sue inutili profezie. Ma il dubbio è già instillato nell’animo del sovrano, che a poco a poco scopre un passato tenebroso: è stato lui stesso, sebbene inconsapevole, l’uccisore di Laio, suo padre. Edipo si è macchiato del delitto di parricidio (lo ha ucciso in un trivio, per un banale motivo); ma, cosa ancora più grave e insopportabile, si è reso responsabile del delitto di violazione delle leggi della natura e della divinità, perchè, anche in questo caso, involontariamente, ha sposato la propria madre, con la quale ha generato quattro mostruosi figli.

Edipo Re – Ugo Pagliai, Inda 2013; foto Maria Laura Aureli

Nessuno, neppure Edipo, sapeva di avere provocato questi turbamenti nell’ordine naturale. Alla fine è venuta fuori una terribile verità: per il dolore e la vergogna, Giocasta, la moglie di Laio, si impicca ed Edipo, devastato dalla scoperta, si cava gli occhi per non vedere mai più la contaminazione che ha portato alla sua famiglia,  al proprio paese e a sé stesso. Se ne andrà errabondo, accompagnato dalla figlioletta Antigone, ramingo, a morire nel bosco di Colono. Ecco, la violazione dell’ordine naturale comporta l’ira degli déi, custodi delle leggi e della natura. Il coro commenta, mentre osserva Edipo, che esce dalla scena: “Ecco Edipo, l’uomo più felice e potente del mondo, oggi è il più miserabile. Nessuno può dirsi felice prima della morte”.

La tematica della contaminazione, del mìasma, è fondamentale nella cultura religiosa e morale degli antichi greci.

Allora si credeva così. La punizione divina era la compensazione degli errori commessi nei confronti della religione, della morale, della natura. Ma poi Tucidide prima ed Epicuro poi  hanno ampiamente spiegato che la peste, la malattia, le disabilità fisiche sono fenomeni prettamente naturali e quindi vanno combattuti con la medicina e con l’intelligenza degli uomini. Non c’è nessuna interferenza divina.

Non è così anche oggi? Oggi possiamo dire anche noi di avere esperienza e siamo convinti che si tratti solo di un rapporto violato tra scienza e natura ancora non equilibrato, si tratta della miopia e della follia, tutta moderna di inseguire un benessere privato separato dal rispetto verso la natura e le sue leggi invalicabili.

 

 

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