Riduzione dei parlamentari, si o no?

Domenica 20 e lunedì 21 settembre siamo chiamati alle urne per il referendum confermativo inerente la riduzione del numero di parlamentari.

E’ assolutamente fisiologico che – dinnanzi ad un quesito referendario che non lascia alternative fra un SI ed un NO – ciascuno motivi in maniera differente le ragioni della propria posizione. E come sempre, poiché in politica non esistono “verità assolute” ma soltanto “verità parziali”, è chiaro che in entrambe le posizioni di favorevoli e contrari sussistono sia alcuni elementi che hanno una loro ragionevolezza (e che sono condivisibili dai più) sia altri elementi che appaiono più influenzati da visioni preconcette (e quindi meno meritevoli di considerazione). E’ evidente, allora, che chi, alla fine, voterà SI oppure NO, lo farà sulla base di una graduatoria di priorità assegnata alle verità parziali in cui pone fiducia.

In ogni caso, chiunque vinca non cambierà sostanzialmente molto nella vita politica e, soprattutto, nella vita dei cittadini; perché si tratta di una riforma marginale rispetto ad altre che invece avrebbero una maggiore incidenza (riforma dei partiti, riforma del Titolo V, riforma del bicameralismo, una buona legge elettorale che contempli elementi capaci di contemperare rappresentanza e governabilità e che ripristini le preferenze,…). Per cui sopravviveremo comunque, senza drammi! Al riguardo, mi sembra illuminante ed equilibrato il pensiero del costituzionalista Filippo Pizzolato: «Trovo istruttivo e non inutile tutto questo confronto acceso sul referendum. Significa – per tutti – che la Costituzione motiva ancora e che la guardia è alta. Se vincerà il Sì, questo confronto servirà a spingere per un’attuazione e un completamento accorti della revisione, nell’ottica del rilancio dell’autorevolezza del ruolo del Parlamento e non della sua mortificazione; se vincerà il No, spero che servirà come ulteriore monito a riforme più accurate».

Dopo questo lungo preambolo, nel massimo rispetto di coloro che hanno una diversa opinione, vorrei esprimere il mio pensiero al riguardo, che è favorevole ad una ragionevole “cura dimagrante” del Parlamento, e non per mere ragioni di risparmio per il bilancio dello Stato (che sono risibili), quanto piuttosto per motivazioni di altra natura che cerco di spiegare.

Punto primo.

Faccio rilevare anzitutto che il disegno di riforma costituzionale, che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, è stato approvato in seconda lettura dalla Camera con 553 favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti; se si tiene conto che i votanti erano 567, la riforma è passata quindi alla Camera quasi all’unanimità: pressoché tutte le forze politiche (a parte il voto contrario espresso solo dal gruppo misto, qualche defezione e alcuni distinguo), hanno dato il loro esplicito consenso al provvedimento. Al Senato la legge è stata parimenti approvata, ma senza raggiungere la maggioranza assoluta dei due terzi alla seconda votazione: per questa ragione, come prevede l’art. 138 della Costituzione, è stato richiesto da parte dei promotori di sottoporre il testo a referendum confermativo.

Punto secondo.

Sono trentasette anni (dal 1983) che il Parlamento italiano si sta impegnando a ridurre il numero dei parlamentari. Si sono susseguiti ben sette tentativi, tutti abortiti. Ciò vuol dire che il numero di 950 viene ritenuto da tempo come esorbitante, ed una riduzione ragionevole è considerata opportuna e quasi necessaria.

Il Servizio Studi del Senato ha stilato una doppia classifica sull’”affollamento” delle Camere, che ha messo a confronto i dati dei 27 paesi Ue, attraverso due prospetti comparativi: uno assoluto ed un secondo relativo alla popolazione.

Dopo l’uscita dall’Ue da parte del Regno Unito (che ha 1.431 parlamentari), l’Italia con i suoi 950 parlamentari attuali occupa il primo posto in termini assoluti, seguita da Francia (925), Germania (778), Spagna (616) e Polonia (560).

Con la riduzione proposta oggi da 950 a 600 parlamentari nelle due Camere, il nostro Paese passerebbe dal primo posto attuale al quarto posto in termini assoluti rispetto ai 27 Paesi dell’Ue. Non mi sembra una rivoluzione o quantomeno un grande passo in avanti: il numero resta comunque elevato e ragionevolmente più che congruo rispetto agli altri 23 Paesi (che mantengono rispetto a noi un numero inferiore di parlamentari).

Nella seconda classifica, in termini relativi (cioè quanto a numero di parlamentari in rapporto alla popolazione), l’Italia occuperebbe il ventiduesimo posto sui 27 paesi dell’Ue (con 1,6 parlamentari ogni 100mila abitanti). Ma in questa stessa classifica la Francia è 24ma (con 1,4 parlamentari ogni 100mila abitanti); la Spagna e l’Olanda sono 25me (con 1,3 parlamentari ogni 100mila abitanti); la Germania è ultima (con 0,9, ovvero con meno di 1 parlamentare ogni 100mila abitanti).

Punto terzo.

Al di là di numeri e classifiche, entriamo nel merito della discussione.

I contrari alla riduzione del numero dei parlamentari eccepiscono sostanzialmente che:

  1. Meno sono i parlamentari e meno pluralismo ci sarà non solo nel Parlamento, ma anche all’interno dei partiti e delle loro articolazioni interne;
  2. Avere attenzione alle minoranze è qualcosa che definisce la qualità alta di una democrazia. La potenza di una catena si misura dalla forza del suo anello più debole, e la potenza di un Parlamento si misura dalla qualità del rispetto per le sue minoranze.

Affermazioni in buona sostanza condivisibili in linea teorica, ma rispetto alle quali, tuttavia, su alcuni elementi inviterei a riflettere.

Punto quarto.

Il problema serio è il fatto che, con le leggi elettorali vigenti dal 2005, si tratta pur sempre di parlamentari “nominati/cooptati” dalle segreterie nazionali dei partiti e non di “eletti” dal popolo. Siamo sinceri: cosa cambia, nella nostra democrazia parlamentare, se i partiti (da soli) se ne scelgono 600 piuttosto che 950? Paradossalmente, la riduzione del numero dei parlamentari può costituire addirittura una limitazione al potere assoluto dei partiti rispetto alla sovranità popolare, e quindi può essere un fatto positivo! Perdurando, infatti, sistemi elettorali di questa natura, il pluralismo e la tutela delle minoranze (su cui le mie corde sono estremamente sensibili), rimangono mere aspirazioni ideali ed enunciazioni utopiche.

Punto quinto.

La democrazia interna ai partiti, il rischio del “pensiero unico” (o dominante), l’esistenza dei “fedelissimi” rispetto a chi governa i gruppi parlamentari (la libertà personale dei parlamentari a esprimersi in scienza e coscienza), non dipende certo dalla quantità dei parlamentari, ma dalla loro qualità:  ed è tutta da provare la migliore capacità “selettiva” da parte delle segreterie dei partiti (e degli equilibri interni fra le loro correnti) rispetto a quella esercitabile da parte dell’intero corpo elettorale; che altro non è che la “sovranità popolare” riconosciuta dalla Costituzione (che prevede che deputati e senatori vengano eletti con “suffragio universale e diretto” – artt.56 e 58).

La rappresentanza è un valore, ma solo se i cittadini sono i titolari esclusivi dell’esercizio democratico della scelta dei propri rappresentanti. E la qualità della democrazia non è messa tanto a rischio dal taglio dei parlamentari, quanto piuttosto dalla volontà o meno delle forze politiche di uscire dai penalizzanti giochi di potere.

In conclusione, l’alternativa non è tra questa riforma, pur parziale, e la difesa della Costituzione, ma tra questa riforma e l’assetto esistente che è la manipolazione delle istituzioni rappresentative da parte dei partiti privi di consistenza democratica. Il taglio dei parlamentari può essere un modo per costringere i partiti a ripensarsi, cercando di ridurre le rendite a loro disposizione. Avremmo certamente preferito accompagnare a questa riforma quella del bicameralismo differenziato, così come quella di una legge elettorale conseguente; ma ritengo comunque preferibile avere un parlamento meno pletorico e più in linea con le altre democrazie europee.

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