PUBBLICHIAMO IL SAGGIO DI DON GIUSEPPE GURCIULLO, IL CUI ESTRATTO E’ STATO PRESENTATO NELL’EDIZIONE TIPOGRAFICA DI CAMMINO DEL 28 FEBBRAIO 2021 CON FOCUS “ALLA RICERCA DELLA DEMOCRAZIA PERDUTA”.

Il primo approccio per approfondire il concetto di governo per la Chiesa, che non si identifica con i sistemi di governo fondati sulla democrazia, non può che essere costituzionale: chiarire cioè la natura e la finalità della Chiesa.

Già Aristotele insegnava che la natura delle cose che divengono è il loro “fine”. A tale principio ha fatto eco nella dottrina canonistica -vale a dire, la scienza giuridica ecclesiastica- che «ogni società ha la propria giustificazione, natura e funzione, ragion d’essere e principio normativo o norma originaria o fondamentale, nella propria finalità, secondo il principio della logica normativa: “il principio è il fine”. Ed il fine della Chiesa è la missione che Cristo le ha affidato: la missione universale storica salvifica»[1]. A tal proposito il Magistero è inequivocabile: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo che è Gesù Cristo[2].

Atteso che la Chiesa trova la propria ragion d’essere nella missionarietà è opportuno allora approfondire la Sua identità. Ciò consentirà, poi, di dire quale sistema di governo è proprio della Chiesa secondo gli insegnamenti magisteriali. La risposta a tale quesito rimanda alla grande ricchezza dottrinale della riflessione teologica dell’ultima Assise conciliare, il Vaticano II, dalla quale prendiamo atto della nuova concettualizzazione della Chiesa secondo cui tutti i cristiani, in forza del battesimo, senza alcuna distinzione, formano l’unica Chiesa di Cristo Gesù, di cui è stato preparazione e figura l’antico popolo di Israele. A questo nuovo Popolo di Dio «sono pienamente incorporati quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salute in essa istituiti, e nel suo corpo visibile sono congiunti con Cristo – che la dirige mediante il Sommo Pontefice e i Vescovi – dai vincoli di professione della fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della comunione»[3]. Esso, «ha per Capo Cristo […]. Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio […]. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati. E finalmente, ha per fine il Regno di Dio»[4]. L’intera Chiesa – e, pertanto, tutti quelli che ne fanno parte – è chiamata alla santità[5] e all’apostolato[6]. In altre parole il Concilio Vaticano II ha affermato in maniera autorevole che la Chiesa è fondata innanzitutto sul principio ‘comunionale’. Ciò ha permesso alla Chiesa di operare un vero ritorno alle sue origini bibliche e teologiche. Ha consentito, come affermava Hoffmann, di superare una certa ‘gerarcologia’[7] di cui era vittima la mentalità giuridica ecclesiale prima del Vaticano II, riducendo la realtà giuridica ecclesiale, preminentemente, a garanzia della potestas ierarchiae, intesa principalmente come auctoritas. Questo stato di cose ha perfettamente senso in un Diritto canonico, come quello odierno, che interviene a normare «soltanto le modalità specifiche secondo cui chi nella Chiesa ha responsabilità e/o potestà (l’istituzione nelle sue varie articolazioni ed espressioni) deve predisporre, organizzare e custodire l’annuncio, la testimonianza e l’esperienza vitale del Vangelo all’interno della legittima successione apostolica che custodisce l’una fides e l’unum depositum consegnati da Cristo ai suoi discepoli»[8].

L’origine di questa prospettiva tipicamente canonistica sarebbe da ricondursi sostanzialmente a due fattori. Innanzitutto, proprio perché la Chiesa è una realtà ‘comunionale’, anche se ‘istituzionale’, la comune responsabilità verso l’unica missione, di cui ogni fedele è destinatario, non può essere intesa in senso democratico[9]; dall’altro, si afferma la diversa modalità ‘aggregativo-istituzionale’ tra ‘societas’ e ‘communitas’ che distingue, sulla base della realtà sociale di riferimento, tra l’essere membro per appartenenza necessaria o per adesione volontaria. Della prima sarebbe proprio la realizzazione di uno status giuridico automatico ed indipendente rispetto alla propria facoltà di scelta; della seconda, la volontà elettiva della persona perché mossa dal desiderio di condividere gli ideali comuni. Da queste considerazioni scaturisce l’identità della Chiesa come agglomerato sociale partecipativo in forza di un’adesione volontaria dei suoi membri e non già, alla stregua di una qualunque società politico-statuale, come ente già dato da un’appartenenza necessaria dove la dimensione della volontarietà personale non sortisce alcuna conseguenza rispetto all’esserne membro. Secondo tali considerazioni, per il semplice fatto di aver scelto di diventare cristiani mediante il battesimo, si viene ad essere destinatari (co-eredi) di un patrimonio spirituale unico e comune, che si qualifica quale elemento aggregante e nello stesso tempo futuro da realizzare insieme, al di là degli interessi personali singolarmente considerati; diversamente da quanto succede per le categorie giuridiche dei contesti societari statuali, in cui gli interessi dei singoli sono prevalenti e il bene comune materiale risulta essere il traguardo finale da ottenere.

Le due modalità aggregative di cui si è detto –necessaria o volontaria- creano, a priori, delle differenze strutturali e funzionali in ordine alla «“posizione” e […] “condizione” di ciascuno, sia rispetto agli altri che alla “struttura” istituzionale, ed alla qualità dei rapporti di cui si partecipa»[10]. Nel primo caso, quello dell’appartenenza necessaria, i singoli per il «conseguimento del bene comune materiale (fenomenico, empirico, sociale) […] chiedono di esser tutelati nei propri “interessi” e messi nella possibilità di perseguire quanto ciascuno ritiene legittimamente espressivo della sua individualità e personalità»[11] e ciò diventa preminente per un sistema di governo che voglia definirsi democratico. Viceversa, nell’opposta situazione, cioè nella Chiesa, ciò non si verifica, perché, in forza di un ribaltamento delle priorità, primari per lo stesso soggetto non sarebbero tanto i propri interessi, avendo liberamente scelto d’investire la propria individualità in un ideale comune, ma il patrimonio spirituale-aggregativo eletto che per la Chiesa di Cristo si identifica nella «salvezza attraverso l’accoglienza e la condivisione del dono universale ed inesauribile della Grazia di Dio»[12] ritenuto il bene supremo per sé stessi e il fine desiderato; ciò verso cui far convogliare la propria soggettività in modo attivo e partecipativo, con senso di corresponsabilità, di partecipazione e in piena comunione con l’intero gruppo. Il patrimonio comune non può mai diventare, in tal senso, il destinatario verso cui avanzare delle pretese soggettive, perché è propriamente scelto ed in quanto tale elemento che si desidera custodire, condividere e di cui farsi attivamente carico. Il diritto della Chiesa, di conseguenza, tutelando le situazioni giuridiche dei fedeli, si pone come un modello di appartenenza giuridica, in cui il parametro qualificatore non è tanto quello di rappresentare una comunità di fedeli a cui debbano essere distribuiti singolarmente dei diritti, quanto piuttosto consentire una piena partecipazione alla comunione ecclesiale, superando ogni individualismo, che favorisca la posizione di un membro a danno di quella di un altro, e forme totalizzanti, che dissolvano la singolare coscienza della persona-membro nella impersonale volontà della collettività[13]. In questa linea non si creerebbe nessuna dicotomia, confermata per altro dalla tradizione e dallo stile di governo della Chiesa ai sensi del Diritto canonico, tra le attribuzioni giuridiche dei fedeli e quelli dell’intera comunità; tra gli interessi dei singoli e quelli della collettività.

Alla luce delle predette considerazioni si comprende già perché il governo in Ecclesia non può mai essere indentificato con la democrazia; tanto meno, la corresponsabilità di tutti i fedeli al bene della Chiesa non può essere assimilata ad una sorta di partecipazione egualitaria al governo come se si facesse parte di un consiglio d’amministrazione, dove si è indistintamente tutti alla pari e con medesima forza obbligante rispetto alle decisioni.

In riferimento al buon governo della Chiesa bisogna integrare correttamente i principi basilari e fondativi della Chiesa, come popolo di Dio, vale a dire: il principio d’uguaglianza e il principio di varietà dei fedeli, da cui scaturisce il principio gerarchico.

Tra tutti i battezzati sussiste innanzitutto una vera uguaglianza. Afferma a riguardo, il canone 208 del Codice di Diritto Canonico, che ha recepito quasi alla lettera gli insegnamenti conciliari[14]: «Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno».

Tale uguaglianza non è contraddetta neanche dalla diversità di genere sessuale. Tra fedeli donne e maschi non si dà nella Chiesa alcuna distinzione in termini di capacità giuridica e capacità d’agire. L’accesso alla sacra ordinazione dei soli fedeli maschi non contraddice quanto appena detto perché l’Ordine sacro non rientra, secondo il principio d’uguaglianza, nella titolarità di diritti e doveri che sono attribuiti in forza del battesimo allo stesso modo nella Chiesa a tutti i fedeli, ma in una specifica volontà di Cristo, per cui la possibilità di essere ordinati in sacris è propria del principio di varietà, secondo il quale, se la santità e l’apostolato sono, per quanto attiene alla loro sostanza e ai loro fini, eguali per tutti, vi è di contro una diversità nei modi e nelle forme di perseguirli, tenuto conto degli stati e delle condizioni di vita secondo le particolari e specifiche vocazioni di ciascuno[15]. Ciò suppone che la varietà di spiritualità e di forme di apostolato che rispondono alla volontà fondazionale di Cristo e all’azione dello Spirito Santo, pertanto, sono fenomeni assolutamente legittimi nella Chiesa e si pongono tra loro in termini di complementarietà.

Dal principio di varietà, si ricava per volontà di Cristo il principio gerarchico. Esiste nella Chiesa una gerarchia d’ordine, di giurisdizione e di magistero dotata della potestà di governo e della missione ricevuti da Cristo per insegnare la dottrina, custodire il deposito della fede, governare la Chiesa, amministrare i sacramenti e, come fons et culmen della stessa Chiesa, rinnovare il sacrificio della passione, morte e risurrezione di Cristo mediante la celebrazione dell’Eucarestia[16]. La dimensione gerarchica della Chiesa è stata recepita e sancita giuridicamente dal canone 204, § 2 che recita: «Questa Chiesa, costituita e ordinata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui». A questo punto bisogna, tuttavia, ribadire che il principio di varietà e, non ultimo quello gerarchico, in riferimento alla identità della Chiesa, non creano diversità dignitarie. La varietà si pone in termini di diversità di funzioni, di competenze e di responsabilità nel governo della Chiesa. Il principio di varietà, unitamente a quello gerarchico, non fa venire meno quello di eguaglianza, ma apre ad una diversa responsabilità di partecipazione al governo e modalità di adesione all’unica opera di mediazione di Cristo fondata sulla differenza di essenza tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale: «il sacerdozio ministeriale è sacramento della mediazione di Cristo. Il sacerdozio comune è partecipazione al dinamismo dell’offerta di Cristo, partecipazione esistenziale […] La cooperazione organica del sacerdozio comune e del sacerdozio ministeriale si dispiega nel rispetto reciproco di ciò che ontologicamente è proprio di ciascuno di essi, per realizzare l’unica missione salvifica che Dio ha affidato alla Chiesa»[17].

Ciò che si sta delineando stando a quanto predetto è in ordine ad un sistema di governo che contempli l’autorità decisionale della gerarchia ecclesiastica, senza tuttavia escludere la corresponsabilità e la partecipazione della stessa comunità dei fedeli.

Si tratta a questo punto di capire che cosa debba intendersi nella Chiesa per corresponsabilità e partecipazione comunitaria al governo della Chiesa.

Sgombriamo, innanzitutto il campo, dalle possibili errate interpretazioni. Non si tratta di una prospettiva di senso in chiave né progressista, né conservatrice, ma conciliare.

In senso progressista la corresponsabilità sarebbe sinonimo di democrazia: del “facciamo tutto insieme” e “votiamo sempre e tutti su tutto”; e se ciò non succede è legittimo chiedersi: “ma chi l’ha deciso?” e se non se ne viene a capo si creano situazioni di stallo o paralisi pastorali. Si decide a maggioranza insomma.

In chiave conservatrice, la corresponsabilità è vista, in senso negativo, come rassegnazione. Salviamo il salvabile. Diventa più una sconfitta che una risorsa.

La vera prospettiva di senso, è senz’altro quella conciliare secondo la quale la corresponsabilità è l’unico modo di essere Chiesa. In essa si afferma innanzitutto il principio d’uguaglianza tra tutti i fedeli, con pari diritto di cittadinanza e dignità nell’agire di tutti i fedeli. Diversamente dal modello progressista, la prospettiva conciliare tratta della corresponsabilità recuperando anche il principio di varietà, secondo il quale la differenza ministeriale attribuisce diversità di diritti e doveri che giustificano e fondano il ruolo decisionale della gerarchia ecclesiastica, dei chierici insomma, e non dei laici in genere, motivo per cui non è ammissibile l’impostazione progressista del “votiamo tutti insieme e decidiamo a maggioranza”. Corresponsabilità ecclesiale non è un modello o un metodo decisionale, ma è un modello e un metodo operativo. La corresponsabilità è un modo di/per fare le cose insieme, ma non  il pretesto per giustificare prassi pastorali non ortodosse per le quali le decisioni spettano a quello che potremmo definire una sorta di “parlamento ecclesiale”, quanto piuttosto a chi ha la responsabilità di governare la Chiesa, perché facente parte della gerarchia ecclesiastica, e presiederla in persona Christi capitis. Detto in altri termini, il governare nella Chiesa non è un atto assembleare, ma proprio e personale dei Pastori della Chiesa; laddove proprio e personale non significa ad personam, di testa propria o in modo privatistico, cosa che presterebbe il fianco all’individualismo e all’arbitrarietà, lontani mille miglia dal servire il popolo santo di Dio ed edificare la comunione che lo sostanzia così come il Magistero afferma. Il processo che conduce alle decisioni di governo, secondo l’identità della Chiesa di cui si è già detto, invece, chiede, a diverso titolo, l’azione di discernimento comunitario che tenga presente che le decisioni spettano certamente alla costituzione gerarchica della Chiesa, ma la cui maturazione e formulazione contemplano l’apporto qualificato, attivo e costruttivo dell’insieme del popolo di Dio. Collaborazione, cooperazione, partecipazione, consultazione, sono le categorie utilizzate dal Codice per indicare le varie modalità di partecipazione al governo della Chiesa in spirito di corresponsabilità. La questione si colloca ad un livello previo rispetto alla decisione e serve alla conoscenza, comprensione e valutazione dei fatti e delle circostanze di vita della comunità da cui deve emergere la migliore decisione di governo nel rispetto del depositum fidei.

Attraverso i ‘consigli’ di partecipazione al governo della Chiesa, che vedono la presenza fattiva dei laici, scaturiscono elementi, considerazioni, valutazioni, criteri, ricordi… che sostanzieranno la decisione finale.

Il discernimento comunitario, pertanto, è necessario perché l’agire di governo ecclesiastico possa essere informato, pertinente e opportuno rispetto al concreto vissuto della comunità cristiana.

Il discernimento comunitario è necessario, se non addirittura vincolante, perché l’agire di governo ecclesiale è un fatto istituzionale e pubblico e non privatistico.

In questa prospettiva ciò che caratterizza la corresponsabilità è prima di tutto il prevalere della responsabilità di ciascuno all’operato comune: ciascuno, infatti, partecipa e risponde ‘del’ e ‘dal’ proprio punto di vista istituzionale, approcciando le tematiche e le questioni secondo l’ottica peculiare dello status/ministerium occupato all’interno della Chiesa e per il bene di tutti.

Nella corresponsabilità ciascuno deve assumersi tutte le proprie responsabilità, tanto positive che negative, tanto in modo consensuale che dissenziente, tanto condivise quanto solitarie: ciò risponde, d’altra parte alla natura non collegiale ma gerarchica della potestas regiminis ecclesiale.

Il discernimento comunitario è necessario perché lo stile di governo del Vaticano II: non sia quello del dominus per eccellenza del diritto romano, cioè il pater familias; né quello del potere che renderebbe i governati dei semplici sottoposti; neanche quello dell’autorità da esercitare verso dei “dipendenti”; ma, invece, l’agire proprio del timoniere/il gubernator, il quale cerca di comprendere quale sia la direzione da perseguire; in che come dare ordine alla vita della Chiesa; su quali vie intraprendere i nuovi sviluppi dell’annunzio evangelico e come rendere tutto ciò concretamente possibile nella quotidianità del vissuto ecclesiale, attraverso l’indirizzo ed il coordinamento delle risorse spirituali, morali, personali e materiali di cui la Chiesa dispone nelle diverse situazioni. D’altra parte nella Chiesa non c’è da decidere cosa fare, poiché questo lo ha già indicato e fissato Gesù Cristo (annunciare il Vangelo, guidare alla conversione e vivere santamente), ma solo come farlo.

Il governo della Chiesa non deve infatti darsi mete, obiettivi, scopi, finalità diversi da quelli del suo Fondatore, che è il Signore Gesù Cristo, ma solo perseguirli insieme come unico Popolo di Dio. Tutti impegnati insieme a remare verso lo stesso porto di salvezza, in piena comunione di spirito, d’intenti e di azione sotto l’autorità di chi esercita legittimamente la potestà di governo. Cosa ben diversa da un sistema di governo democratico diviso in maggioranze e minoranze, rappresentanti e rappresenti.

[1] T. Jiménez Urresti, De la Teología a la Canonistica, Salamanca, 1993, 250.

[2] Cf. LG, 17; AG, 5.

[3] LG, 14.

[4] LG,  9.

[5] Cf. LG, 39.

[6] Cf. LG, 9.

[7] J. Hoffmann, “La Chiesa e la sua origine”, in Aa. Vv., Iniziazione alla pratica della Teologia. Dogmatica II, vol. III, Brescia, 1986, 74-75.

[8] P. Gherri, Lezioni di Teologia del Diritto canonico, Roma, 2004, nota 14, 229.

[9] Cf. J. Fornés, De las obligaciones y derechos de todos los fieles, in Aa. Vv., Comentario Exegético al Código de Derecho canónico, 3ª ed., vol. II/1, Pamplona, 2002, 56.

[10] P. Gherri, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in Apollinaris, LXXXII (2009), 235.

[11] Ivi, 237.

[12] Ivi, 247.

[13] Cf. P. Buselli Mondin, Il Personalismo cristiano di Giovanni Paolo II: Quale significato giuridico?, in P. Gherri (ed.), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo. Atti della II Giornata Canonistica Interdisciplinare (PUL, 6-7 marzo 2007), Città del Vaticano, 2008, 73

[14] LG, 32.

[15] Cf. LG, 32.

[16] Cf. SC, 10.

[17] Cf. A. Vanhoye, La partecipazione dei fedeli laici alla comunione ecclesiale con particolare riferimento ai ministeri, in Christifideles laici: spunti per uno studio , ed. italiana de «I laici oggi», Città del Vaticano, 1989, 72-73.

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