Vaccini elaborati, sperimentati e distribuiti in poco più di otto mesi a fronte di studi e ricerche che di solito richiedono anni e anni; impulso alla digitalizzazione della nostra quotidianità così forte e veloce come mai era accaduto nel decennio precedente; trasformazione rapida delle nostre abitudini sociali così radicate nel tempo tanto che le ritenevamo praticamente immodificabili. Il virus con il quale da oltre un anno siamo costretti, nostro malgrado, a convivere ci sta facendo camminare lungo sentieri largamente inesplorati e con la sensazione di non poter contare nemmeno su una bussola affidabile. Chi una propria strada per vivere questi tempi la indica (e la segue) è Gianfranco Damico, siracusano, saggista (per Feltrinelli il prossimo 15 aprile uscirà “Rispettati. Affermare se stessi senza sensi di colpa”) da oltre vent’anni lavora con persone, professionisti, aziende, organizzazioni – attraverso il coaching, la formazione, la consulenza – perché raggiungano l’eccellenza umana in tutte le sue forme e il benessere inteso come realizzazione di sé; forte anche della sua consolidata esperienza sul campo con l’azienda di famiglia che opera nel settore della ristorazione, amandosi definire “cameriere-filosofo meravigliato“.

Vivere questo tempo sembra che sia davvero qualcosa di complicato. O forse è vero il contrario, é semplicissimo…

“Dobbiamo capire intanto  cosa si intenda per complicato e semplice. La semplicità, probabilmente, risiede nel fatto che il virus in qualche modo ha livellato in basso molta parte dell’agire quotidiano, costringendoci a occuparci meno della complessità esterna e ad occuparci di più della personale complessità, del proprio rapporto con la vita, con le questioni essenziali come la malattia, la morte, la situazione economica. Sono quelle cose che nella piramide dei bisogni di Maslow stanno alla base ma che hanno addentellati anche nella capacità che abbiamo di dare un senso alla nostra vita su questo pianeta. Quindi, sì si è semplificato dal punto di vista sociale ma ci  ha costretto a fermarci, a fare più silenzio e, soprattutto a pensare”.

E pensare è uno “sport” pericoloso…

“… E’ decisamente rischioso, molto rischioso. Infatti, una delle cose che, a mio avviso, ha fatto il virus è evidenziare alcune vulnerabilità che esistono nella nostra società. Noi sogniamo società ideali, dove tutto funziona, la salute è tutelata, lo Stato ci è vicino sotto ogni punto di vista. In realtà siamo un esperimento, sia dal punto di vista personale, biologico, che da quello delle strutture sociali. Come dire: la costruiamo noi la realtà e non é che abbiamo gli algoritmi oggettivi che ci assistono. Mettiamola così: lì c’è un’argilla grezza e tocca a noi farne qualcosa. Il virus ci sta costringendoci a chiederci cosa realmente ne vogliamo fare di questa argilla che possiamo modellare con le nostre mani”.

Siamo passati da andrà tutto bene e dalla scoperta di un “insospettabile” senso di comunità a una realtà, appena un anno dopo, dove questo vincolo solidaristico collettivo si è miseramente infranto sulle barriere degli interessi personali…

“Devo confessare che non sono stato tra quelli che stavano sul balcone e che pensava che tutto sarebbe andato bene… L’ottimismo non basta da solo a farci fare strada… Sia chiaro, avrei voluto andarci sui balconi a cantare, applaudire, sventolare striscioni con slogan ottimistici e dipinti con i colori dell’arcobaleno. E’ bello dire, come si fa nei momenti più difficili, che anche nella crisi si deve vedere le opportunità che custodisce, ma tutto questo riesce assai più difficile da fare mentre sul territorio il sangue si sparge e i morti restano sul terreno”.

La pandemia ci ha provato e fiaccato, non solo nella nostra salute. Come se ne viene fuori?

“La prima cosa che mi viene in mente è: vacciniamoci! Prima di pensare alle grandi costruzioni filosofiche teoretiche proviamo a restare con i piedi ben piantati per terra. Se ne uscirà affrontando il problema – che è complesso e  come tale non richiede risposte semplici – nella maniera scientificamente più rigorosa possibile. E siccome non siamo tutti scienziati, o ci fidiamo delle comprovate competenze altrui, oppure non  ne usciremo. Il rischio è che diventi tutto… Facebook, dove ciascuno dice quel che pensa e vuol dire…”

A proposito dei social: li frequenti molto e lì manifesti con estrema schiettezza, anche di linguaggio, il tuo modo di vedere e pensare. Può essere anche questo un possibile percorso da seguire, superando il politically correct a ogni costo e gli equilibrismi?

“A mio avviso sì. Un’altra delle caratteristiche che scorgo, in questo momento così difficile, è che il virus ha costretto ciascuno a scoprire le posizioni. Io ho un’idea dell’integrità, che metto in cima ai miei valori: tutto ciò che pensi, dici e fai, proviene dallo steso posto e va nella stessa direzione, non ci sono discrasie o disallineamenti. Dunque, uso i social con un presupposto: la gente deve sapere chi sono e cosa penso, e io non devo temere di farlo. Anche tutti i miei libri si muovono lungo questo solco. Ho una metafora prediletta: la testa è un giardino che devi curare. La mente curata costruisce anche mappature della realtà che sono funzionali al proprio vivere. Faccio questo nei libri, come potrei non farlo anche su Facebook?”.

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