La prima sensazione é quasi di disagio. E’ uno “spettacolo” al quale da oltre un anno e mezzo non ero più abituato. Vedere tutta assieme così tanta gente, lo confesso, non ha mancato di farmi davvero impressione. Già l’aver visti fuori che l’ampio piazzale –  tutto rigorosamente delimitato e con i camminamenti precostituiti – era pieno di gente ordinatamente in fila e, complice anche la giornata incredibilmente mite, con i volti rischiarati da un bel sole, è stata un’immagine che ha trasmesso buon umore. A riportare alla quotidianità di questi ultimi ormai venti mesi le mascherine a coprire disciplinatamente (in verità non proprio in tutti i casi…) naso e bocca. Ma il parlottio incessante e crescente, le risate che in più occasioni bucavano la barriera delle mascherine prorompendo dai vari gruppetti che si andavano muovendo quasi all’unisono (altra cosa: diciamo che il consiglio sul mantenimento del distanziamento interpersonale non è che sia stato granché tenuto in considerazione),  la corsa trafelata di qualche ritardatario, il flusso incessante che dalla vicina fermata della metropolitana alimentava praticamente senza soluzione di continuità quel serpentone di donne, uomini, ragazzi, studenti e scolari (anche piccolissimi, rigorosamente in fila con le maestre a vegliare su di loro) che si ingrossava, trasferiva chiaramente quel senso di voglia di riprenderci la quotidianità che rendeva ai miei occhi ancora più incomprensibile le proteste no vax e no green pass di questi ultimi giorni. Ma questa è altra questione.

Ecco, la prima sensazione appena tornato nel grande piazzale sul quale si affaccia il complesso che, al Lingotto di Torino, è tornato ad ospitare il Salone Internazionale del Libro dopo lo stop forzato dello scorso anno, è stata proprio quel diffuso disagio dovuto al fatto di non essere più abituato a simili immagini. E se questo lo si percepiva fuori, all’aperto, nel grande piazzale delimitato dalle architetture austere di alcuni degli edifici che furono parte del cuore pulsante dell’automotive tricolore targato Fiat degli anni sessanta, la sensazione si è ripresentata e in qualche misura amplificata varcando la soglia del padiglione 1. D’improvviso è stato come ritrovarmi catapultato indietro nel tempo a due anni prima, alla primavera del 2019, ultima edizione del Salone dell’era pre-pandemia dove accalcarsi davanti agli stand, restare in piedi praticamente pigiati l’uno sull’altro nella pur grande sala per seguire la conversazione con l’autore di grido di turno, stropicciarsi gli occhi con le mani senza stare a pensarci due volte era la normalità. Tutto ciò, in qualche misura – e con qualche giusta e ragionevole limitazione, ovviamente – sembra proprio che ce lo siamo ripresi. O siamo sul punto di farlo.

Certamente ci siamo potuti ritrovare al Salone del libro che per questa edizione autunnale di ripartenza  ha anche ampliato la propria superficie espositiva per rendere meno problematica e sufficientemente sicura (con l’indispensabile collaborazione di ciascuno) la coesistenza di migliaia di persone – complessivamente sono stati oltre 150mila i visitatori nei cinque giorni della manifestazione –, per tornare ad offrire occasioni d’incontro, di conversazione, di dibattito, di riflessione e di spettacolo nel segno del libro. Una gran bella vetrina che, stando almeno a sentire le voci che rimbalzavano da uno stand all’altro, non avrà magari rappresentato il punto di svolta per quanto riguarda le vendite ma certamente ha rappresentato la riaffermazione del Salone come uno dei principali snodi dell’editoria internazionale. Una buona occasione che ancora una volta hanno colto pure le Regioni allestendo spazi espositivi (non commerciali) a disposizione di piccole realtà editoriali che, da sole e con i ristretti mezzi economici sui quali possono contare,  al Salone altrimenti non avrebbero potuto arrivarci. Un modo, anche questo, per contribuire fattivamente a sostenere una filiera, quella del libro, che versa ancora in evidente difficoltà. Presenze, quelle delle Regioni, che sono state connotate o da spazi ampi e allestiti in maniera ora sfarzosa  (come la Regione Piemonte, che comunque giocava… in casa, che ha scelto di richiamare le suggestioni della Reggia di Venaria Reale), ora decisamente più sobria (come nel caso della Regione Calabria che ha affidato il proprio messaggio alle parole di Tommaso Campanella o Corrado Alvaro), ora decisamente più green come il Friuli Venezia Giulia che ha optato per un allestimento che ha occhieggiato alla sostenibilità. Padiglioni delle Regioni che sono anche diventate  palcoscenici di appuntamenti di rilievo, ancorché non inseriti nella programmazione che è stata svolta nei principali luoghi di aggregazione del Salone. E tra questi mi pace ricordare quello della Calabria che ha ospitato Vibo capitale italiana del libro 2021. E la Sicilia? Non pervenuta. A difendere i colori dell’Isola un editore di punta del panorama nazionale come Sellerio che ha allestito un proprio spazio espositivo tra i più grandi e tra i più eleganti dell’intero Salone (e, non a caso, alla fine tra i più assiduamente frequentati dai visitatori). Perché la Sicilia (e pochissime altre regioni) abbia scelto, morettianamente, di farsi notare di più non andando… non è dato sapere. Quel che invece si può ben dire di sapere è che forse mai, come in questa edizione di ripartenza del Salone, sarebbe stato bene esserci. Sarebbe stato, egoisticamente, un gran bene ad esempio per Siracusa che avrebbe potuto avere a Torino il miglior palcoscenico dal quale dare ancora più vigore alla sua corsa a Capitale italiana della cultura 2024.

 

[*] Ex Post (nel senso che volevo scrivere un post ma è venuto troppo lungo…)

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