Le tragedie che ci sono state lasciate in eredità dalla sapienza greca sono solo un ‘piccolo resto’ rispetto all’enormità di quella produzione letteraria dal punto di vista quantitativo. È cioè arrivata a noi solo una porzione ridottissima di questo grande patrimonio testuale. Eppure il suo influsso sulla cultura occidentale appare imperituro. È lecito chiedersi perché. Credo che agiscano almeno due ordini di motivi.

Per un verso, la scrittura dei tragici rappresenta il concentrato dell’eredità greca. Voglio dire che si tratta di una sintesi altissima della grecità, della sua forma mentis, delle sue categorie di pensiero, del suo sentimento del mondo. Leggendo i tragici, senza rendercene conto, tocchiamo le nostre radici, entriamo in rapporto con testi che hanno costituito il nostro immaginario. La storia di Edipo o di Antigone, con le questioni ad esse collegate, ci appartengono ma solo nelle forme in cui Sofocle ce le ha raccontate. Il mondo contemporaneo, il mondo in cui viviamo, è stato strutturato dai miti tragici: cosa sarebbero stati l’Ottocento senza Antigone o il Novecento senza Edipo? Giganti della cultura moderna come Hegel o Freud si sono confrontati, in maniera per loro stessi decisiva, con le storie dei grandi autori attici. In definitiva: le tragedie ci colpiscono perché sono il nostro specchio antico. In esse ci riconosciamo, al di là di ogni consapevolezza esplicita perché il nostro immaginario comincia da lì.

Ma c’è anche un altro motivo, dal mio punto di vista ancora più profondo. I testi di Eschilo, di Sofocle e di Euripide sono certamente greci, ma sono anzitutto, in prima istanza, umani. L’eredità greca traluce in essi, spogliata però dei suoi presupposti culturali più specifici e datati. Riprendendo Simone Weil, rileggendola a modo nostro, potremmo dire che le tragedie attiche del V secolo oltrepassano i confini di ciò che è greco e colgono l’umano nel suo stato sorgivo. In questi testi non si avverte in primis la contrapposizione tra Atene e Gerusalemme, tra il pensiero greco e l’orizzonte giudaico-cristiano, tra il privilegio dell’anima e la centralità del corpo (tanto per fare un esempio), ma si trovano bensì questioni, pensieri e sentimenti che appartengono all’umano in quanto tale. Non una carrellata dei topoi greci ma una rappresentazione profonda, integrale, delle condizioni decisive e delle parole fondamentali con le quali ci scontriamo lungo la nostra strada. Necessariamente, direi. Non c’è Atene e non c’è Gerusalemme, non c’è contrapposizione tra le due radici dell’Occidente, sulla scena tragica, perché la rappresentazione delle donne e degli uomini in quelle che Jaspers ha chiamato ‘situazioni-limite’ trascende l’orizzonte concettuale di riferimento e lo allarga fino a raggiungere l’umano in quanto tale. C’è – per dirla con Benjamin – una ‘cosa’ del testo che trascende le sue forme verbali e concettuali per attingere a ciò che è di tutti, in ogni epoca e sotto ogni cielo. Così le tragedie solcano i secoli, oltrepassano la loro assoluta inattualità materiale, empirica, parlano a chi non ne sa nulla, perché sono il nostro passato greco ma sono in primo luogo il nostro presente umano.

Tutto questo è accaduto perché le tragedie sono già un frutto e un rito post-religiosi? Perché il loro background, in maniera sempre più chiara da Eschilo fino a Euripide, è la secolarizzazione, la fine del sacro, la percezione di un’eclissi potente del divino? Non è facile rispondere. Quel che è certo è che la comunione del vero assistere (Gadamer) – che Aristotele chiamava catarsi – è ancora oggi la nostra esperienza viva di fronte alle messa in scena di quei fantastici testi. Ed è questo ciò che conta.

 

  • Pubblicato sul numero di Cammino del 26 giugno 2022
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