Non avrebbe certamente voluto una vita sotto scorta. Giovane giornalista e scrittore, sotto scorta perché vittima di continue minacce di morte da parte di boss mafiosi per il suo impegno nel testimoniare fatti di corruzione e storie di resistenza civile. Paolo Borrometi è un giornalista di 37 anni, originario di Modica, vice direttore dell’Agi, direttore del quotidiano web “La Spia”, collaboratore di TV2000 e presidente nazionale di Articolo 21. Borrometi è stato condannato a morte dalla mafia ed è sotto scorta dal 2014. Le sue scomode inchieste hanno smascherato azioni criminali anticipando piani delle forze dell’ordine e indagini giudiziarie che hanno portato agli arresti di numerosi esponenti di clan mafiosi. Il giornalista nel corso della sua attività professionale ha seguito e portato avanti inchieste scottanti, ma soprattutto ha fatto nomi, cognomi e tutte le coordinate possibili per dare volto e indirizzo a quella “mafia invisibile” che affliggeva (e tutt’ora affligge) la sua terra. Stiamo parlando della Sicilia sud-orientale, la così detta «provincia babba», quella che abitualmente viene considerata «mite, ingenua, tranquilla, persino stupida», come l’apostrofarono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, da sempre contrapposta ad una «sperta, intraprendente, furba e violenta che invece la mafia l’ha prodotta, non solo subita», riferendosi a quella palermitana. Eppure – gli espliciti contenuti del suo ultimo libro lo testimoniano – la terra di Borrometi sobbolle di illegalità e criminalità organizzata ai più vari livelli, e tutto può essere considerata fuorché “babba”. Anzi, a dir la verità, la sua inchiesta e la sua attività è stata racchiusa nel libro inchiesta dal titolo “Un morto al giorno. La mia battaglia contro la mafia invisibile” (Solferino), non ha ancora fatto pace con l’idea, nonostante la gratitudine nei confronti dei «ragazzi che ormai considero la mia famiglia e grazie ai quali ogni giorno ho salva la vita». D’altronde – Borrometi lo sa bene – la perdita della libertà e della tranquillità fa parte del pericoloso gioco che si sceglie di condurre andando a scoperchiare certi vasi di Pandora.

Paolo, raccontaci la tua storia. Come nasce la tua passione per il giornalismo di inchiesta nella splendida provincia di Ragusa?
“La mia storia…la mia storia è come la tua, come quella di ogni persona che cerca solo di fare il proprio lavoro. Io mi laureo in Giurisprudenza, divento avvocato praticante…ma sin da piccolissimo coltivavo il sogno del giornalismo, con alcuni modelli fondamentali. Il primo sicuramente, Giovanni Spampinato, ucciso proprio nella mia provincia negli anni 70′.

La tua vita quando è cambiata?

“Il 16 aprile del 2014 due uomini incappucciati mi aggredirono fisicamente spezzandomi una spalla in tre parti, che ancora oggi ha una menomazione permanente del 20%. Qualche giorno prima mi invitarono a farmi i fatti miei con una chiamata, una frase che ripeterono quel giorno prima di lasciarmi a terra: “Se non ti fai i fatti tuoi, questa è sola la prima”. Quella frase rimbomba sempre nella mia mente, è il momento della mia decisione: per la prima volta ho avuto paura di morire. La cosa più brutta non è stata solo quell’aggressione, ma quella violazione del tuo essere e della tua vita, e anche quell’isolamento. Il problema non era chi avesse pestato Paolo Borrometi, ma è cosa avesse fatto Paolo Borrometi per essersi fatto pestare. C’è ancora una cultura nella nostra terra per la quale la vittima deve sempre nascondere qualcosa e alla fine diventa il carnefice. Io dovevo aver dato fastidio a chissà quale donna… Questa fu la cosa che mi fece più male. Nei giorni successivi, solo con la mia famiglia, sentire quell’isolamento è stato uno dei momenti peggiori. La vita sotto scorta è un inferno. Vivo ogni giorno con la paura, ma ho continuato a scrivere: se noi diamo la sensazione che vincono loro, è la fine. Loro, alla fine, non vincono mai, anche se questo costa tanto. Avevo 30 anni. Ricordo la telefonata del comandante provinciale dei carabinieri che mi disse: “La tua vita è in pericolo, da oggi vivrai sotto scorta”. E poi ricordo le 48 ore, che dovetti uscire per il compleanno di uno dei miei più cari amici, avevo la vergogna ad uscire con la scorta. Mi citofonarono, scesi con le chiavi in macchina e li guardai dicendo: “Che facciamo mi seguite?”. Loro, come un bambino a cui dover insegnare la vita, mi dissero: “Dottore, che sta facendo? Da oggi verrà con noi”. Trattenevo a stento le lacrime in quel tragitto, nella macchina blindata con persone estranee. C’è chi dice che la vita sotto scorta sia un privilegio, io gli farei fare anche solo 24 ore di vita sotto scorta». Paolo Borrometi ha spiegato che la sua è «una vita dura, complessa e difficile: io devo ringraziare chi fa la scorta, ho trovato una seconda famiglia, hanno fatto di tutto per mettermi a mio agio. Io vivo a Roma, lontano dalla mia terra di Sicilia e dai miei affetti: lì c’era e c’è la mia vita, non è un caso che io ho continuato a scrivere nonostante tutto».

Cosa significa essere un giornalista d’inchiesta?

Per me è un sogno che ho cercato di realizzare in tutti i modi, con grandi sofferenze e passione. È uno sprone a fare sempre meglio. Al giornalismo d’inchiesta bisogna appassionarsi perché è complesso, difficile, scomodo. Se fatto bene può influenzare positivamente la vita di ognuno di noi.

Oggi si ragiona per spot e non si approfondisce. Fare il cronista è davvero complesso. Basti pensare alle querele, alle diffamazioni, alle minacce delle mafie che puntualmente arrivano… quando sei solo. Perché fare il giornalista d’inchiesta vuol dire essere soli, non avere compagni di strada e questa solitudine ti espone a qualsiasi tipo di minaccia: delegittimazione, isolamento e minacce fisiche.

 

La denigrazione tramite social network è da considerarsi minaccia?

Noi come Articolo21 con i frati abbiamo voluto fortemente questo manifesto. Quando ne iniziammo a parlare anni fa era per noi un sogno, una scommessa. Grazie alla collaborazione con padre Mauro, padre Enzo, Beppe Giulietti, e tutti quelli che in questi anni si sono battuti per illuminare le periferie del mondo, siamo riusciti a mettere su carta le linee guida di un pensiero che guarda gli ultimi. La Carta di Assisi ricalca un giornalismo che non si ferma al comunicato stampa, ma che va oltre e dà voce a chi non ha voce: emarginati, periferie dimenticate, esclusi. La Carta di Assisi diventa scorta mediatica, non solo per il giornalista che denuncia, ma per il magistrato, il poliziotto, l’imprenditore, lo studente e per tutti quelli che vivono in quelle periferie che sono fuori dai coni di luce. Sono proprio questi coni di luce a proteggerli. Il Manifesto deve essere una linea guida non solo per l’impegno giornalistico ma anche e soprattutto per l’impegno quotidiano dei cittadini che vogliono essere parte attiva della società”.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio scritto all’Ucsi, in occasione delle celebrazioni del 60 anno di fondazione ha sottolineato che ci vuole una maggiore responsabilità e verità per combattere la disinformazione sul web.

 

“Il Presidente della Repubblica è il più saldo riferimento del nostro Paese. Sono prole che condivido totalmente e per le quali lo ringrazio ancora una volta. Ognuno di noi dovrebbe avere nelle parole del Presidente la propria guida”.

 

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