Intanto come un fiume carsico la mala politica sta svuotando l’Isola

Come un fulmine a ciel sereno per tanti – ma non per tutti – 40 dei 70 deputati dell’Assemblea regionale siciliana hanno votato contro alla proposta di ripristinare l’elezione diretta dei rappresentanti delle riformulate nuove “province” siciliane.

Chi segue l’evolversi della politica nazionale dalla caduta della cosiddetta prima Repubblica, tuttavia, non si è meravigliato più di tanto. I centri di potere pubblico, infatti, sono sempre più gestiti da un’oligarchia autoreferenziale che poco spazio concede all’autogoverno dei territori.

Tale tendenza non poteva non manifestarsi in quest’ultima votazione a scrutinio segreto consumatasi nella sala palermitana impropriamente chiamata “d’Ercole”.

La divisione amministrativa di uno Stato, inoltre, non è asettica al fluire della vita sociale ed economica delle periferie.

Può riguardare la ripartizione delle risorse economiche, la gestione di particolari servizi, la programmazione delle politiche di sviluppo così come la rete per l’esazione dei dazi in omaggio al regime di turno; in ultima analisi può significare un costosissimo poltronificio per dispensare bolli e favori funzionali alla stabilizzazione territoriale dei detentori dello scettro.

Se ricordiamo bene, pare proprio che quest’ultima deriva clientelare scatenò, per mano dell’improvvido Crocetta, la fine delle nove Provincie Regionali Siciliane: l’annuncio fu dato in diretta tv nazionale, Rai Uno, nello studio de “L’Arena” dell’anchorman Giletti, anno 2013.

Ma andiamo con ordine facendo dei passi indietro.

Dopo l’influenza fenicia sulle aree sicule, sicane e degli elimi, superata la fase della colonizzazione greca con le sue artistiche città, il dominio romano considerò la Sicilia come “provincia dell’Impero”, dividendola amministrativamente in due zone, seguendo le acque del fiume Salso.

Poi arrivarono gli Arabi con la ripartizione in Val Demone, Val di Mazara e il nostro Val di Noto.

Impianto mantenuto nella nuova era cristiana iniziata con i Normanni, fino alla riforma spagnola che impose la sottomissione dell’isola ad unico Viceré e quindi l’ulteriore scomposizione in 42 comarche paradossalmente meglio funzionali al potere centrale.

Sarà solo nel 1812 – con la Costituzione del Regno di Sicilia di britannica ispirazione – che oltre alla tardiva abolizione del feudalesimo si passò alla suddivisione amministrativa dell’Isola in 7 intendenze: Palermo, Trapani, Girgenti, Caltanissetta, Messina, Catania e Siracusa. Queste ultime con l’unificazione nel Regno d’Italia cambiarono il nome in “Province”. Nel 1927, in epoca fascista, diventarono le attuali nove: furono infatti elevate a tale rango anche le città di Enna e Ragusa.

Nel 1946 l’ondata indipendentistica rafforzatasi al temine della seconda guerra mondale portò gli illuminati giuristi e statisti presenti in Sicilia, alla redazione dello statuto della Regione siciliana, ancora prima della promulgazione della Costituzione italiana, che lo fece proprio. Fra le lungimiranti previsioni autonomiste contenute, le provincie dovevano essere sostituite da liberi consorzi.

Questi furono istituti solamente con la legge regionale n. 9 nel 1986, fino ad allora si ebbe una gestione commissariale delle ex province con rappresentanti scelti con elezione di secondo livello, cioè eletti dai consiglieri comunali.

Ma è solo con l’elezione diretta dei presidenti delle Province Regionali, nel 1994, che queste assunsero una significativa incisività nel dibattito politico territoriale.

Era proprio l’elezione diretta che conferiva autorevolezza politica ai propri rappresentanti nei confronti dell’accentratrice Regione siciliana, madre e matrigna di ogni tentativo di serio sviluppo dell’Isola.

Così a Siracusa abbiamo assistito alla presidenza di centro desta con la politica decisionista  di Cavallaro –  a cui si deve il riavvio della progettazione per il completamento della Siracusa-Catania – che gli è costata la rielezione; alle presidenze di centro sinistra di Marziano che, dopo un primo mandato in cui si dichiarava di creare la casa dei Comuni, ha poi lavorato sostanzialmente per la solita autoreferenzialità funzionale alla sua elezione palermitana, con buona pace per il bilancio provinciale, e con tanti saluti ai territori che non appartenevano al suo trasversale cerchio magico; ed infine alla presidenza di centro destra del già sottosegretario di stato Bono che ha capitalizzato il merito dei riconoscimenti Unesco in provincia. Negli stessi anni, sempre grazie alle ingenti risorse economiche, la Presidenza della Provincia Regionale ha creato le fortune politiche  – a cui non sempre corrispondono quelle dei Comuni – di Lombardo e Musumeci a Catania così come di Mauro a Ragusa, e così via per l’intera isola.

Fatto sta che oggi le conseguenze della demagogica controriforma provinciale di Crocetta, novello Attila siciliano, sta facendo rimpiangere la decadenza clientelare delle ex Province Regionali; si capisce che questione non sta solamente nel mettere o non mettere la “i” al plurale!

Quello che succederà adesso per queste “entità sovraccomunali” dopo il “no” al ritorno alle elezioni dirette non è dato sapere; la “politica” è in attesa che le prossime elezioni europee aggiornino i rapporti di forza fra i notabili del potere pubblico.

Di certo tante, troppe sono le aspettative tradite per un’Isola con il futuro tarpato dalla silenziosa, incessante e dolorosa emigrazione giovanile. Come un fiume carsico inadeguati gruppi di potere hanno svuotato dall’interno l’Isola, un tempo cuore pulsante del mediterraneo.

Fino a quando, per fare un esempio, si potrà tollerare che il collegamento ferroviario Catania-Trapani impieghi 13 ore per arrivare a destinazione o che i siciliani siano sempre più divisi dal continente per il caro voli?

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