Durante i terribili anni della Resistenza, l’Appennino ligure-emiliano fu la casa di molte brigate partigiane; ma anche i partigiani, come tutti i soldati, non possono combattere a pancia vuota ma le brigate partigiane non potevano contare su approvvigionamenti regolari e il loro sostentamento era legato a ciò che riuscivano a reperire e all’aiuto delle partigiane che, a prezzo di enormi pericoli e sacrifici, portavano loro quel po’ di cibo che riuscivano a preparare.
Raccontano i partigiani che nei torrenti di montagna riuscivano a pescare le trote e che il bosco offriva funghi e castagne in abbondanza. Così, uno dei piatti dei partigiani era la trota cucinata insieme ai funghi in un improvvisato cartoccio e cotta nella brace; per aromatizzarla usavano un po’ di nepitella, facilmente reperibile perché cresce spontaneamente lungo i corsi d’acqua. Ancora i funghi, insieme al crescione, accompagnavano le uova di quaglia che venivano fatte sode. Le castagne secche calmavano i morsi della fame, le castagne bollite, consumate insieme al loro brodo, scaldavano lo stomaco e riempivano la pancia, la farina di castagne, impastata con acqua e con un po’ d’olio, profumata con aghi di rosmarino, diventava un semplice castagnaccio che solo raramente vedeva la presenza dei pinoli.
Se già era assai difficile nutrirsi, diventava impensabile pensare a qualche golosità. Con il succo di qualche grappolo d’uva, unito a un pugnetto di farina e a un’idea di zucchero dava origine a un’essenziale mostarda…
Le rare volte in cui si disponeva di un po’ di carne in esubero, per conservarla, le donna della resistenza la ponevano in un recipiente di terracotta, la condivano con sale, pepe nero, salnitro ed erbe aromatiche secondo disponibilità – bacche di ginepro, alloro, rosmarino, aglio – vi ponevano sopra un peso e la lasciavano al fresco di una cantina o di altro locale adatto; dopo una settimana, se vi era disponibilità, la bagnavano con un po’ di vino bianco e la lasciavano riposare ancora per una ventina di giorni. La carne così trattata durava e quindi era una riserva utile anche perché non necessitava di ulteriore cottura.
E quando, dopo la Liberazione, arrivarono gli americani con la loro cioccolata, le partigiane ne fecero dei semplici tortini: un po’ di burro, un paio di cucchiai di zucchero, un pugno di farina, un paio di uova e cioccolato fuso; e poi in forno… L’antenato di ciò che nei menù contemporanei viene elencato come “cuore morbido al cioccolato”.
La prossima volta che lo ordinerete, ricordate che nacque, lì, tra i monti e le campagne, tra le case devastate dalla guerra, da mani che non tremarono né impastando il pane né impugnando uno Sten!
A tutte loro, semplicemente,
Grazie