In un pomeriggio uggioso- Rai 5 propone Le Supplici di Eschilo con la regia di Moni Ovadia e l’adattamento scenico in siciliano e greco moderno curato da Moni Ovadia, Mario Incudine e Pippo Kaballà. Le Supplici furono portate in scena dall’Inda in occasione del 51°ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa. Fu rappresentata al teatro di Dionisio in Atena, probabilmente nel 463 A.C. Danao ed Egitto, figli di Belo, re d’Egitto, entrano in conflitto. Il primo è padre di cinquanta figlie e il secondo di cinquanta maschi che vogliono prendere per spose le figlie di Danao. Sia Danao che le figlie rifiutano il matrimonio e fuggono su una nave che li porta ad Argo. I Pelasgi accettano di dare asilo ai fuggitivi e respingono un tentativo degli Egizi, sopraggiunti a loro volta, di impadronirsi delle cugine. Esordisce Moni Ovadia: “Sugnu Pelasco, figghio di Palectone, re di sta me stirpe che porta u me nome, bagnu lo mari do sacru Strimone, di unni nasci e unni mori u suli. Oltre lu Pintu, finu a Peonia pi na terra di Perrebi fino a gioco di Dodona. Stu chianu si strafinnenzia ai li nostri occhi chissu è tutto lu mio e la dedico ad Apis, figghiu di Apollo medicu e induvinu, ca livò la morti e lu sangu assassino, ad Apis gli è gratu lu popolu argivo ca liberò sta terra do focu do drago. Ora lu sai cu sugnu e cu era,dimmi tu cu si e di unni veni, cu picca paroli e cu lentu parlari…cu picca paroli e cu lentu parlari”. Ovadia in tutta la sua possente figura scenica, accompagnato dalla musica, crea un pathos coinvolgente che arriva a spaccare addirittura lo schermo. Si resta ammaliati da cotanta bravura, un susseguirsi di emozioni che trovano il culmine nel momento esatto che Pelasco concede rifugio alle fuggiasche nella sua terra evidenziando il senso di accoglienza per lo straniero “Iu e lu me popolu suvranu semu i vostri garanti”esaltando in maniera decisa il concetto di libertà “E tu u capisti? Cà si parra a lingua della libertadi”.
Temi a tutt’oggi attualissimi, rispetto per i rifugiati che scappano dalle loro terre dalla guerra, dalla sofferenza per cercare un po’ di pace in terra straniera e Pelasco incarna il monito dell’accogliere il diverso, lo sfortunato, la sofferenza che ci accompagna in questi giorni bui e tristi di quarantena, sofferenza che non ha colore ma solo un canto uguale per tutti il canto della libertà. Mi piace inoltre sottolineare come Moni Ovadia si mostra nella foto del suo profilo facebook. Un primo piano efficace, di una bellezza disarmante, con l’hashtag sotto la sua barba #iononsonoinutile e a seguire si legge: “Ieri sera a Piazzapulita, Stefano Massini ha dato voce con forza e vigore alla protesta di tutti noi lavoratori dello spettacolo per il riconoscimento del nostro ruolo fondamentale nella vita sociale e culturale di questo Paese e per i nostri diritti. Sempre mi barrerò per la difesa di qualsiasi categoria discriminata e per il primato assoluto della Cultura”. Concludendo siamo tutti figli dello stesso cielo, siamo il ricordo di quello che eravamo, dei nostri nonni; sarebbe magnifico poter avere l’umana pietà, la tolleranza verso altre etnie, modi di pensare diversi ma che ci accomunerebbero nel nome dell’amore. Si, perché è questo quello che manca, l’amore verso gli altri, i meno fortunati, l’amore che fa scattare la molla della solidarietà, la mano che stringe un’altra mano e la conforta e si lascia confortare.
La rincorsa di beni materiali ci ha portato a tutto ciò, ci ha fatto dimenticare cosa eravamo, da dove veniamo, la rincorsa all’apparire e non all’essere, così come semplicemente sono tante persone che arrivano in un porto in cerca di asilo e si respingono al loro paese, pur sapendo che molti sono disposti a morire pur di non tornare alla non vita, alla guerra, alla miseria. Rispetto per il rifugiato, rispetto per qualsiasi tipologia di lavoro, rispetto umano e restiamo umani. In questi giorni a casa alimentiamo il nostro spirito guardando il Grande Teatro in tv e non dimentichiamo che un uomo che legge ne vale due ed un bambino che legge, sarà un adulto che pensa.