Ma poi che pur al mondo fu rivolta

contra suo grado e contra buona usanza,

non fu dal vel del cor già mai disciolta.

                                                           Pd. III, 115-117.

 

Questi versi fan soffiare sulle nostre labbra un vento di Paradiso, un vento che scioglie al canto una voce serena e contenta di quanto si è ottenuto: il sommo poeta accenna brevemente all’esperienza di Costanza d’Altavilla, regina di Sicilia e madre di Federico II di Svevia, la quale aveva scelto per sé la vita monastica eppure fu costretta a spogliarsi di quel velo per obbedire alle scelte della propria famiglia, che la volle dare in sposa al secondo vento di Soave, cioè ad Enrico di Svevia, figlio di Federico I Barbarossa. Nonostante questo gioco di palazzo, ella, tuttavia, benché privata del velo che le copriva il capo, non si allontanò da quel velo che le aveva avvolto il cuore perché, d’altronde, una volta che ci si lascia conquistare dall’amore di Cristo, nessuno può separarci da esso e questo era ben chiaro anche a San Paolo, che, molti secoli or sono, scrisse “Chi mai ci separerà dall’amore di Cristo?”.

Ecco, l’esempio di Costanza ci consente di riflettere su quanto a volte siano distanti il principio della scelta personale da quello dell’obbedienza, eppure in alcuni casi, forse rari, si può ben vedere che, quasi come un prodigio, scelta ed obbedienza si fondono insieme facendo germogliare un fiore di vita che già profuma di beatitudine. Innanzitutto, c’è un caso in cui scelta e obbedienza non possono mai incontrarsi: si tratta dell’obbedienza passiva, che spinge l’uomo quasi a privarsi della propria indipendenza e del proprio arbitrio, finendo per diventare succube della persona con cui si crede di avere un rapporto di stima reciproca che magari induce all’obbedienza, quando, invece, è solo un velo d’illusione che cela un’implicita ed inespressiva subalternità. Dall’altra parte, esiste quella che potremmo definire obbedienza attiva, cioè quel sentimento di riguardo nei confronti di qualcuno al quale si è intimamente legati, e, per svariate ragioni, si sceglie di intraprendere la via dell’obbedienza perché in cuor proprio si avverte che quella, benché non risponda pienamente ai nostri precedenti progetti, è la scelta migliore, la scelta che, per usare un’espressione ironica del Manzoni, permette di “andare in Paradiso in carrozza”. È la scelta di Costanza che, strappata nel corpo alla serenità del chiostro, vi è rimasta intimamente congiunta nella profondità del cuore e, obbedendo all’uomo, secondo la lettura dantesca, ha obbedito a Dio così da diventare al crepuscolo della sua vita una scintillante favilla tra gli infiniti meandri che costellano il cielo.

Si potrebbe continuare con un lungo elenco e forse non si finirebbe mai di raccontare storie di persone che, nella scelta dell’obbedienza, hanno scorto il proprio trionfo, eppure tale espressione si rivela la sintesi più confacente alla vita di suor Chiara Di Mauro, una donna che in cuor proprio ha perseguito un’unica e sola scelta, quella di servire Cristo in ogni istante della sua esistenza, una scelta che ha sempre declinato con lo spirito dell’obbedienza. Per obbedienza verso la propria famiglia, Adelaide Di Mauro acconsentì alle proprie nozze scegliendo di sposarsi forse anche per sollevare i genitori da non pochi affanni e dar loro quella pace nel cuore che scaturisce dalla vista della propria figlia sposata ad un uomo per bene; fu la scelta dell’obbedienza e della carità a guidarla nel prendersi cura del proprio marito ormai in fin di vita perché affetto dalla spagnola; fu la scelta dell’obbedienza a Cristo che condusse i suoi passi verso il convento delle clarisse di Messina per indossare quell’abito perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta, che caritate a suo piacer conforma; fu la scelta dell’obbedienza che piegò le ginocchia di questa serva per chieder perdono e far penitenza anche quando non aveva commesso alcun torto; fu la scelta dell’obbedienza che le diede in volto quell’espressione dolce e sommessa dinanzi all’arroganza e alla superbia di una donna, quale fu suor Fedele Castrogiovanni, badessa del convento di Messina, e di un uomo come mons. Giovanni Musumeci, vicario generale dell’arcidiocesi di Siracusa, che le inveirono contro e la osteggiarono in ogni suo impegno caritatevole soltanto perché, un po’ come l’altro ladrone crocifisso insieme a Gesù, non si erano accorti del privilegio di aver incontrato un’anima pia e non avevano visto il mistero d’amore e santità che aleggiava sul cuore di quella donna, che non disdegnò di farsi piccola e minuta come un granellino di sabbia benché nessuno o pochi le fossero superiori per devozione e carità.

Spinti forse dalle logiche mondane, saremmo indotti a considerare suor Chiara Di Mauro una perdente, una donna che non è stata capace di farsi rispettare, una donna dall’animo troppo buono che si è fatta sottomettere dalle diverse persone che ha incontrato nel cammino della propria vita. Forse la considereremmo una fallita perché si è troppo spesso lasciata vincere dallo spirito dell’obbedienza finendo per sopprimere i suoi istinti, le sue inclinazioni, i suoi desideri, i suoi sogni. Certo, una simile lettura della vita di suor Chiara è legittima, comprensibile ma, mi consenta il lettore, estremamente superficiale perché una tale interpretazione lascia intendere che chi ne è l’autore abbia percezione della sola obbedienza passiva, quella che non tiene in alcun conto sé stessi e conferisce ad altri un potere che loro non spetta. Suor Chiara, però, ha fatto propria quell’obbedienza che non trascura la propria indole, ma che getta anche lo sguardo sull’animo altrui, su ciò che è meglio per il bene dei fratelli e delle sorelle, su ciò che non garantisce la sola felicità personale, ma che fa lievitare il maggior sogno della felicità universale: questa è l’obbedienza caratterizzata da un attivismo non indifferente, è l’obbedienza dettata dalla scelta che non soffoca il cuore, ma lo fa vivere con la quiete della bonaccia anche quando il mare del proprio essere è tormentato dalla tempesta.

Sembra questa una lettura esagerata, sconsiderata, lontana da ogni razionalità e pervasa di un astrattismo che non risponde alle esigenze del mondo di oggi, ma è curioso come già San Paolo avesse la risposta per una questione così delicata ed attuale quando ai Filippesi ebbe a scrivere “Cristo Gesù umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e ad una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli diede il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre”. Ecco, allora, che scegliere l’obbedienza significa sì scendere in basso e diventare persino un granello di sabbia che tutti calpestano, ma il vento, quello buono, soffiato dallo Spirito, è capace di portare quel granello fin sul punto più alto dell’universo: la dimora di Dio. E di questo doveva avere contezza suor Caterina Mondello quando, interrogata sulla vita di suor Chiara, disse senza mezzi termini “Suor Clara Francesca di Gesù Agonizzante è stata un Serafino. Un turibolo ardente, un fascetto di mazzi, un’anima angelica cui il frecciere divino saettò e ferì per trasportarla negli eterni Tabernacoli, ove da lassù fa sentire a noi poveri mortali la potenza che le ha dato Colui per il quale visse, si sacrificò e morì”. E quella morte, irrigata dall’obbedienza e rinvigorita dall’energia della scelta, è solo la nascita del virgulto frondoso e fruttuoso che vive in eterno.

(*)-  Contributo di Domenico Mazza

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